Witch Hunter Robin

La serie di Witch Hunter Robin, creata da Shukō Murase, è composta da ventisei episodi e rappresenta uno dei migliori risultati degli ultimi anni.  Realizzata nel 2002 sotto l’egida della Sunrise, mare di Cowboy Bebop, narra le vicende di Robin, cacciatrice di streghe /stregoni dai poteri particolari, che si trova ad affrontare uno scontro fra agenzie che gestiscono queste attività. Witch hunter Robin rientra in un filone iniziato da Hellsing due anni prima, nel quale l’ambientazione assume i toni gotici tipici dei romanzi ottocenteschi decadentisti. I personaggi hanno poteri simili a quella di streghe, che confermano l’approccio ad una materia solo in parte inaspettata. S pensi a lavori quali Blood, Vampire hunter D: Bloodlust, lo stesso Hellsing, al bolso Devil lady, sono tutte opere aventi come tema quello di Vampiri, Streghe, esseri soprannaturali che sono di fatti il retaggio di certa letteratura occidentale. Tutto questo è legato ad una moda, esplosa anni prima con X-files ma confermata da serie televisive quali Alias, 24 o addirittura dal Codice da Vinci di Dan Brown, ossia quella del complotto, della congiura.

Insomma, Witch Hunter Robin è sicuramente un prodotto caratterizzato da codici contemporanei, e influenzato da correnti più o meno esplicite delle arti visivo/sonore di oggi. In questo rappresenta una novità fino ad un certo punto. Ciò che colpisce è altro, aspetti collaterali comunque importanti. Dal punto di vista prettamente stilistico un character design adulto, figlio di quello di Cowboy bebop.

Un’animazione non sempre lineare e fluida, ma con momenti davvero potenti. Si pensi all’episodio in cui l’agenzia per cui Robin lavora viene attaccata: la tensione raggiunge vertici unici, esaltati peraltro da musiche di rara bellezza. Inventive interessanti, che però a lungo andare stancano. La struttura narrativa in  effetti sembra girare un po’ a vuoto, mira a prolungare la materia fino all’ultimo episodio, con l’inevitabile conseguenza che la sensazione finale sia di forzatura. Del tutto originale è invece la rappresentazione dei rapporti fra i personaggi. Non c’è una vera e propria amicizia che li lega, spesso sono indifferenti, spesso trattengono le emozioni. Questo è sicuramente l’aspetto più reale della serie, che fa assimilare i personaggi come esseri umani e non come elementi di umana fantasia.

Riguardo a questo, una menzione particolare spetta alla stessa Robin. Per certi versi questa ragazza ricorda lo Shinji di Evangelion. Infatti è chiusa ed introversa, perché diversa. Questo elemento di diversità (che sta alla base dell’intera serie) è percepito come la causa di tutte le separazioni, delle avversità, degli odi. Ma è l’amore il primo passo per la comprensione, a cui segue l’accettazione dell’”altro”, del diverso. Il finale è un po’ vago, e non trova una soluzione compiuta. Nonostante tutto Witch hunter Robin affascina e coinvolge a sufficienza. Un accenno particolare va alla colonna sonora, ottima e funzionale, e alla splendida sigla iniziale, assolutamente impedibile.

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