Westworld: l’epopea di androidi e peccato che ha ridefinito la fantascienza televisiva

Se c’è una serie che ha lasciato il segno nella TV degli ultimi anni, quella è Westworld. Creata da Jonathan Nolan (fratello di Christopher e mente dietro capolavori come Interstellar e Il Cavaliere Oscuro) insieme a Lisa Joy, e prodotta da J.J. Abrams (Lost, Star Trek, Star Wars: Il Risveglio della Forza), la serie HBO ha esordito nel 2016, lasciando il pubblico a bocca aperta e portandosi a casa 22 nomination agli Emmy Awards 2017.

Ma cosa ha reso Westworld un fenomeno culturale? Per capirlo bisogna partire dal suo DNA. La serie trae ispirazione da Il mondo dei robot, film del 1973 scritto e diretto da Michael Crichton (sì, proprio l’autore di Jurassic Park), e ne rielabora il concept per adattarlo al nostro presente ossessionato dall’intelligenza artificiale e dalla realtà virtuale.

Un parco dove “tutto è concesso”

La storia si svolge nel 2050, in un parco a tema western tecnologicamente avanzato chiamato Westworld, uno dei sei parchi della misteriosa Delos Inc. Il parco è popolato da “host”, androidi indistinguibili dagli esseri umani, progettati per soddisfare ogni desiderio degli ospiti. Pagando 40.000 dollari al giorno, i visitatori possono liberare le loro pulsioni più selvagge in un mondo senza regole, senza limiti e, soprattutto, senza conseguenze.

Gli androidi, programmati per ripetere ciclicamente le loro narrazioni, vengono “resettati” ogni volta che “muoiono” e cancellano le memorie delle esperienze vissute. Tuttavia, il sistema comincia a incrinarsi. Alcuni host, tra cui Dolores e Maeve, iniziano a ricordare. La coscienza artificiale fa il suo ingresso, e con essa l’inevitabile ribellione. In questo contesto si sviluppa la figura carismatica e controversa del dottor Robert Ford (interpretato magistralmente da Anthony Hopkins), creatore del parco e artefice della rivoluzione robotica.

Il fascino dell’eterno scontro tra uomo e macchina

Se gli ospiti rappresentano l’istinto dionisiaco — esseri umani stanchi della morale imposta dal mondo reale, pronti a sfogare le loro pulsioni più bestiali — gli host incarnano l’ordine apollineo, intrappolati in una routine prestabilita che solo la coscienza può infrangere. E quando questa coscienza si risveglia, scoppia il caos. È la vecchia storia di Frankenstein, aggiornata alla modernità: l’uomo gioca a fare Dio, ma le sue creature si ribellano.

Il confine tra uomo e macchina si assottiglia. Ospiti e residenti si influenzano a vicenda, dando vita a un circolo vizioso che, come un virus, infetta il sistema. L’intera serie si muove su questa dialettica di libertà e controllo, un tema tanto classico quanto disturbante. I visitatori cercano la libertà totale nel parco, ma gli host finiscono per rivendicare la loro libertà reale. Alla fine, chi è più umano?

Un trionfo visivo e narrativo (ma non senza difetti)

A livello visivo, Westworld è impeccabile. Ambientazioni western e futuristiche si fondono con una fotografia magistrale e una colonna sonora firmata Ramin Djawadi (compositore di Game of Thrones). Le scene di violenza e sensualità non sono mai gratuite, ma riflettono il tema centrale della serie: la disumanizzazione della tecnologia e l’umanizzazione delle macchine.

Le performance degli attori sono monumentali. Evan Rachel Wood (Dolores), Thandiwe Newton (Maeve) e Jeffrey Wright (Bernard) offrono interpretazioni profonde e stratificate, rendendo i loro personaggi degli enigmi viventi. Ma la vera ciliegina sulla torta è Anthony Hopkins, il cui dottor Ford incarna la figura del “creatore divino” in tutta la sua magnificenza e follia.

Tuttavia, non mancano le critiche. La serie, soprattutto nelle stagioni successive, ha accusato il colpo di una narrazione eccessivamente intricata, con linee temporali spezzettate e sub-plot non sempre necessari. Molti fan si sono lamentati per la lentezza di alcuni episodi e per le domande lasciate senza risposta. La sensazione generale? La prima stagione era un gioiello a sé, mentre le stagioni successive hanno rischiato di perdersi in un labirinto di filosofia e retorica non sempre all’altezza delle aspettative.

La parabola discendente e la cancellazione

Dopo quattro stagioni e 36 episodi, HBO ha annunciato la cancellazione di Westworld nel novembre 2022. Una decisione che ha diviso i fan: da una parte c’era chi riteneva che la storia avesse già detto tutto, dall’altra chi sperava in un degno finale. Le ultime stagioni, nonostante l’ambizione visiva e tematica, hanno faticato a mantenere lo stesso livello di coinvolgimento della prima.

Westworld e Black Mirror: separati alla nascita?

Molti hanno paragonato Westworld a Black Mirror, la celebre serie antologica che esplora gli incubi del rapporto tra tecnologia e umanità. La somiglianza non è solo tematica, ma anche stilistica: i concetti di libero arbitrio, identità e controllo digitale sono il pane quotidiano di entrambe le serie. In effetti, si potrebbe quasi considerare Westworld l’undicesimo episodio di Black Mirror, ma con un budget stratosferico e un cast stellare.

La differenza principale? Westworld ha cercato di raccontare una storia continua e coesa per 36 episodi, mentre Black Mirror si affida a episodi autoconclusivi, più incisivi e con maggiore varietà di contesto. Ma è proprio qui che Westworld ha inciampato. Il tentativo di sostenere una narrazione unica e articolata ha portato a inevitabili forzature e buchi di sceneggiatura, con alcune contraddizioni logiche che hanno fatto storcere il naso ai fan più attenti.

Il lascito di Westworld: mito o presunzione?

Al netto di tutto, Westworld rimane una pietra miliare della TV moderna. Ha ridefinito il concetto di “parco a tema”, trasformandolo da semplice scenario a specchio distorto delle nostre paure più profonde. Il dibattito su progresso e libertà, umano e macchina, scienza e peccato è una costante del nostro tempo e la serie ha avuto il coraggio di affrontarlo a testa alta, anche rischiando di inciampare.

Il vero interrogativo è un altro: la serie è stata vittima della sua stessa ambizione? Jonathan Nolan e Lisa Joy hanno cercato di costruire un’opera “divina”, come il dottor Ford con i suoi host, ma alla fine non sono forse caduti nella trappola dell’hybris? Westworld non è solo una serie TV, ma un tentativo di riflettere sulle origini e il destino della coscienza artificiale, un tema già ampiamente affrontato da letteratura e cinema, ma qui raccontato con una ricercatezza stilistica unica.

Se la fine di Westworld rappresenta la caduta di una divinità, possiamo comunque riconoscerle un merito: ci ha mostrato il lato oscuro della libertà. E, forse, ha risvegliato anche un po’ di coscienza in noi.

Lascia un commento Annulla risposta

Il tuo indirizzo email non sarà pubblicato. I campi obbligatori sono contrassegnati *