C’è qualcosa di magnetico nei romanzi di James Baldwin. Qualcosa che non smette di vibrare, anche a distanza di decenni. Non è solo letteratura: è un’eco profonda, una verità scomoda e bellissima che continua a bussare alle porte della nostra coscienza. E nel 2024, in occasione del centenario della nascita di questo gigante della parola, ci ritroviamo tra le mani un tassello importante della sua opera, finalmente tornato nelle librerie italiane dopo oltre quarant’anni: Dimmi da quanto è partito il treno.
Come appassionato lettore — e lasciatemelo dire, come uomo che crede ancora nel potere del romanzo di aprire ferite per poi lenirle — ho accolto questa nuova edizione come si accoglie un vecchio amico. Uno di quelli che ti raccontano storie difficili, che non addolciscono la realtà ma te la sbattono in faccia con la forza della verità. E Leo Proudhammer, il protagonista di questo libro, è proprio uno di quegli amici. Uno che ha vissuto mille vite e mille dolori, e che decide di raccontarceli quando il corpo lo tradisce e lo costringe a fermarsi.
Siamo nella New York del 1960, ma potrebbe essere qualsiasi grande città di oggi. Leo è un attore nero, affermato, di cinema e teatro. Ha tutto, almeno in apparenza. Ma durante una performance, un attacco cardiaco lo scaraventa fuori dalla scena, fuori dal mondo, dentro se stesso. E lì comincia il vero spettacolo: quello interiore.
Il romanzo è un flusso di coscienza struggente, in cui passato e presente si mescolano senza soluzione di continuità. Harlem, l’infanzia povera e piena di sogni, i primi passi sui palchi off-Broadway, il razzismo che ti marchia come un ferro rovente, le amicizie, gli amori, i tradimenti, le verità taciute e quelle esplose. Baldwin ci porta dentro il cuore di Leo, ma anche dentro il cuore pulsante dell’America nera, quella che lotta, che ama, che cade e si rialza.
Ci sono pagine di una bellezza disarmante, che ricordano la potenza lirica di Alla ricerca del tempo perduto, ma con una rabbia che appartiene alla storia americana del Novecento. E c’è anche il respiro epico, cinematografico, di un C’era una volta in America, ma senza la nostalgia idealizzata. Qui tutto è vivido, crudo, vero.
Leo si confronta con la sua bisessualità, con la perdita e la solitudine, con una fede che lo divide dal fratello Caleb, con l’amore complicato e profondo per Barbara, l’amica bianca che gli sarà compagna nei suoi momenti più luminosi e più oscuri. E poi c’è Christopher, passione bruciante e impossibile. Ma Dimmi da quanto è partito il treno non è un romanzo d’amore. È un romanzo sull’identità, sulla fatica di essere sé stessi quando il mondo ti chiede di indossare maschere, quando il colore della tua pelle o la direzione del tuo desiderio diventano motivo di condanna.
Baldwin scrive con l’urgenza di chi sa che ogni parola può essere un colpo o una carezza. E in questo romanzo meno noto, ma assolutamente imprescindibile, dimostra ancora una volta perché continua a essere uno degli autori più necessari del nostro tempo. Non perché anticipa temi che oggi chiamiamo “inclusività” o “diversità”, ma perché li vive sulla pelle, con ogni fibra del suo essere. E ce li restituisce senza retorica, con onestà disarmante.
In un mondo che corre veloce e dimentica in fretta, Dimmi da quanto è partito il treno è un invito alla lentezza, alla riflessione, alla memoria. È una chiamata a guardarsi dentro, a fare pace (o guerra) con i propri demoni, a riconoscere la bellezza anche nel dolore. È un libro che ti fa compagnia, anche quando finisci di leggerlo.
Se amate la narrativa che scava, che sporca, che lascia il segno, non lasciatevelo scappare. E se non avete mai letto Baldwin, iniziate da qui. Poi non potrete più farne a meno.
E voi? Avete già letto questo romanzo o altri di Baldwin? Vi ha colpito come ha colpito me? Parliamone nei commenti e, se vi va, condividete l’articolo con chi ancora non conosce questo gigante della letteratura. Il treno di Baldwin è partito da tempo, ma non è mai troppo tardi per salirci sopra.