Nel 1969 il mondo musicale cambiò per sempre…ma a dir la verità (come fu nel 1967 coi Velvet Underground) se ne accorsero davvero in pochi: gli artefici di codesto cambiamento hanno un nome, The Stooges. Gli Stooges sono un quartetto di scarponi composto dai fratelli Scott e Ron Asheton (batteria e chitarra), Dave Alexander al basso e alla voce Iggy Pop (che da ora in poi lo chiamerò – per motivi affettivi – il Babbo).
Il Babbo rimase sconvolto da un live dei Doors che gli indicò la via della musica. Prese con sé tre principianti e tirò su il gruppo che principalmente si chiamava The Psychedelic Stooges.
Grazie ad un dipendente dell’Elektra, che era andato a vedere le reali capacità degli MC5, furono messi sotto contratto per 5000 dollari e venne loro affidato un produttore coi contro cazzi come John Cale.
Io, personalmente, preferisco Funhouse, ma è di The Stooges che parlerò, semplicemente perchè trovo nell’ingenuità del loro esordio una fantastica innovazione musicale.
The Stooges contiene otto canzoni. Si apre con una danza tribale degna dei Velvet Underground più aggressivi. La voce è una crasi tra Mick Jagger e Morrison, ma più disillusa e annoiata. Il Babbo, infatti, ha 21 anni nel 1969, tanta eroina in corpo e niente di minimamente divertente come prospettiva futura. Lester Bangs addirittura assegna ad un verso di questa canzone (“Well last year I was 21, I didn’t have a lot of fun/and now I’m gonna be 22, I say Oh my and Bu-uh”) il titolo di migliore frase rock di tutti i tempi. La voce annoiata del Babbo, insieme alla chitarra, vira verso la rabbia frustrata, tanto da portarlo ad urlare It is 1969, baby! Riuscendo fa capire quanto ognuno, che vede la vita come la vede lui, possa sostituire l’anno e avere lo stesso grado di frustrazione.
Poi c’è il capolavoro di masochismo (contrapposto alla celeberrima Venus in Furs dei V.U.), I Wanna Be Your Dog. Un ritmo martellante scandito dal piano che John Cale, con maestria memore di I’m Waiting For My Man, infila caratterizzandone l’ossessione che riesce a comunicare il pezzo.
Qui i capolavori si susseguono, infatti è il turno di We Will Fall. Una canzone lenta, dolorosa, vuota. Un lamento funebre sulla morte dell’anima adolescenziale che il Babbo, col suo vocabolario ristretto e ripetitivo, porta a livelli parossistici. La viola che Cale infila nella coda è una cosa che ogni volta che l’ascolto mi dà i brividi sulla schiena.
No Fun, invece, è un testo di ironica disperazione giovanile. Chi cazzo se ne frega del mondo, se io sto andando a rotoli…è questo, quasi, il motto del Babbo, dato che ogni brano narra in modo nudo e crudo le sue esperienze, le sue insicurezze e le sue debolezze. No Fun ha dentro di sè uno dei tanti assoli che Ron Asheton suona così orrendamente male e privo di ogni gusto da rendere ammirevole ed unico un chitarrista del genere. Qui, invece, c’è, secondo me, la più grande frase rock di tutti i tempi: “Maybe I’ll go out, maybe I’ll stay home, maybe I’ll call mum on my telephone”.
Il Babbo ha recentemente raccontato che durante le registrazioni, avevano a disposizione solo quattro canzoni, così, quando hanno sentito che quei pezzi non bastavano, in una sera ne hanno buttati giù altri quattro.
Ann, credo, non sia tra questi. E’ un brano lento e dolente. Sale piano. La batteria monoritmo è sempre presente e martella come non mai. Il basso si trascina in una linea pigra mentre la chitarra fa le sue incursioni col whawha. Fino all’esplosione. Ann, my Ann, I LOVE YOU grida il Babbo, quasi fosse disprezzo o disgusto, mentre gli altri partono in uno strumentale da pelle d’oca.
I pezzi di quest’album sono quasi tutti dei capolavori che ognuno dovrebbe approfondire. Regalano ciò che un qualsiasi tecnico del cazzo non può: la bellezza dell’ignoranza (loro suonavano da nemmeno tre anni gli strumenti). E per questo dono io personalmente non potrò mai smettere di dire grazie al Babbo e agli altri Stooges.
Mealli B. Francesco