A cinquant’anni dalla sua uscita, Taxi Driver non è invecchiato: si è trasformato. Si è fatto spettro, fantasma urbano, sogno febbrile di un’America malata che si specchia negli occhi vitrei di Travis Bickle. Martin Scorsese firma nel 1976 non solo uno dei più grandi film del secolo scorso, ma un ritratto disturbante e potentissimo dell’alienazione moderna, che oggi, restaurato in 4K, torna sul grande schermo con una lucidità ancora più feroce.
Rivedere Taxi Driver oggi, nella sua veste restaurata, è come riascoltare un vecchio disco di vinile con le cuffie di ultima generazione: ogni nota, ogni graffio della pellicola, ogni sussurro dell’asfalto newyorkese risuona con una chiarezza quasi dolorosa. La fotografia di Michael Chapman, soffocante e impregnata di neon malati, si stringe attorno allo spettatore come i pensieri ossessivi di Travis. La colonna sonora di Bernard Herrmann – la sua ultima, struggente sinfonia prima della morte – accompagna tutto con un’inquietudine jazzata e ipnotica, un battito cardiaco malato che guida ogni inquadratura.
E poi c’è lui: Robert De Niro. Un attore che, a soli trentatré anni, abita Travis Bickle con una dedizione assoluta. Il suo sguardo perso, la mimica contenuta e l’inconfondibile monologo allo specchio (“You talkin’ to me?”) sono entrati a far parte dell’immaginario collettivo. Ma Taxi Driver non è solo De Niro: è anche la fragilità spiazzante di una giovanissima Jodie Foster, che a soli 14 anni interpreta la prostituta Iris con un’intensità disarmante, al punto da ottenere due BAFTA. Dietro le quinte, la produzione si fece carico del peso etico di questo ruolo, ricorrendo a controfigure e consulenze psicologiche, segnando un raro esempio di consapevolezza nel cinema dell’epoca.
La trama, scritta da un giovane e tormentato Paul Schrader, è una discesa nell’inferno metropolitano degli anni ’70, un viaggio notturno senza redenzione tra porno shop, pioggia acida e solitudine. Travis, ex marine e tassista insonne, è l’angelo vendicatore che non trova mai il cielo. Alienato, represso, sedotto e respinto da un mondo che percepisce corrotto fino al midollo, il suo gesto finale è un atto di violenza estrema che scivola ambiguamente verso l’eroismo – o forse verso l’allucinazione.
Già all’epoca della sua uscita, il film generò scandalo e venerazione in egual misura. A Cannes si portò a casa la Palma d’Oro, mentre agli Oscar ricevette quattro nomination, tra cui Miglior Film. Il tempo non ha scalfito la sua potenza, anzi l’ha cementata: l’American Film Institute lo ha inserito tra i 100 migliori film americani, e Empire lo colloca al 17° posto tra i 500 più grandi di sempre.
C’è qualcosa di profondamente disturbante nel modo in cui Scorsese lascia il finale in sospeso. L’epilogo apparentemente positivo – Travis eroe, Betsy che ritorna – ha sempre suscitato dubbi. È tutto reale? O è un’illusione crepuscolare, l’ultimo sogno di un uomo morente? Quel fugace sguardo allo specchietto retrovisore, quell’attimo di inquietudine che chiude il film come una ferita non rimarginata, ci fa sospettare che il viaggio di Travis non sia davvero finito.
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