Ci sono giochi che si accendono come meteore, brillano per un attimo e poi svaniscono nel catalogo infinito delle nostre librerie digitali. E poi ci sono quelli che, fin dal primo trailer, ti si insinuano sotto pelle. Steel Seed per me è stato questo: una scintilla che ha acceso qualcosa di profondo, un richiamo istintivo a quell’amore viscerale che provo per i mondi sci-fi, le atmosfere decadenti e le storie che scavano dentro. Da donna cresciuta a pane e joystick, ho sempre cercato nei videogiochi non solo l’adrenalina dell’azione o il senso di conquista, ma anche — e soprattutto — quella connessione emotiva che mi fa dimenticare dove finisce il mio mondo e comincia quello digitale. Steel Seed, sviluppato dallo studio italiano Storm in a Teacup, ha toccato proprio questo nervo scoperto, invitandomi a perdermi in un universo che è tanto spietato quanto lirico, tanto tecnico quanto poetico.
L’incipit è potente: ti svegli, sei Zoe, e non riconosci più nulla. Il mondo come lo conoscevi è morto, ridotto a un’immensa distesa di metallo, circuiti, rovine. Ti muovi in ambienti che sembrano aver dimenticato cosa significhi la vita. Eppure, tu cammini. Perché c’è un obiettivo, un legame, una speranza: tuo padre. E insieme a te, c’è Koby, un piccolo drone volante che non parla ma comunica. Oh, quanto comunica.Koby è la presenza silenziosa che in molti giochi manca. Non è solo un assistente: è l’unico essere (se così possiamo chiamarlo) che capisce Zoe e, con lei, noi giocatori. In un mondo dove il silenzio è più rumoroso delle esplosioni, ogni bip di Koby è una carezza, un urlo o una domanda. Ho amato il modo in cui questa relazione si costruisce senza parole, con vibrazioni emotive e gesti. È una dinamica che mi ha ricordato quanto i legami autentici non abbiano bisogno di frasi altisonanti per essere reali.
La storia si rivela a strati. Non c’è un narratore onnisciente che ti spiega tutto, ed è proprio questo che la rende così potente. Scopri la verità attraverso frammenti di memoria, terminali dimenticati, intelligenze artificiali che hanno aspettato secoli per parlarti. S4VI, in particolare, è un personaggio che mi ha colpita: una coscienza digitale sopravvissuta alla caduta dell’umanità, eppure ancora capace di credere nella speranza. Il tema della rigenerazione, della responsabilità verso il futuro, è trattato con delicatezza. Non sei solo una guerriera. Sei una figlia, una testimone, forse una salvatrice. E tutto questo senza mai cadere nel banale o nel didascalico.
L’ambientazione post-apocalittica è, a dir poco, visivamente magnetica. Il gioco sfrutta la potenza dell’Unreal Engine 5 per costruire paesaggi industriali che sembrano usciti da un sogno (o incubo) distopico. Corridoi sospesi nel vuoto, biodomi consumati dal tempo, impianti che sembrano respirare… ogni scenario è intriso di una bellezza fredda, tagliente, ma irresistibile. È un mondo ostile. Non solo nel senso fisico, ma esistenziale. È un mondo che ti mette costantemente alla prova: “Cosa sei disposta a fare per sopravvivere? Per capire? Per salvare?” E mentre giochi, ti rendi conto che la vera posta in gioco non è solo la sopravvivenza, ma la comprensione di chi siamo stati e chi potremmo essere.
Mi ha colpito l’equilibrio tra stealth, azione e platforming. Non è un gioco che ti prende per mano. Ti lascia sbagliare, cadere, capire. Ogni zona è pensata per essere esplorata in modo creativo: puoi affrontare i nemici con brutalità o eluderli come un’ombra. E la soddisfazione di riuscire a infilarsi in un’area senza farsi vedere… beh, è impagabile. Non è solo questione di abilità: è una danza, una scelta di stile. E poi c’è il sistema di abilità. Tre alberi di crescita, oltre 40 potenziamenti… ma ciò che mi ha colpita non è solo la varietà, ma la sensazione che ogni potenziamento racconti qualcosa del percorso interiore di Zoe. Sei tu a decidere che tipo di persona vuoi diventare in questo mondo in frantumi: più tecnica? Più brutale? Più evasiva?
Certo, ci sono ancora difetti. Nella demo ho trovato collisioni impazzite, qualche comando che non rispondeva, perfino un crash che mi ha fatto imprec… ehm, sospirare profondamente. Ma sapete una cosa? Quando un gioco riesce a trasmettere così tanto anche prima della sua versione definitiva, allora sì, merita il beneficio del dubbio. Per me, Steel Seed non è solo un gioco. È un invito. A sentire di nuovo, a riflettere sul nostro rapporto con la tecnologia, a cercare la bellezza anche dove sembra non esserci più nulla. Non è perfetto. Ma è vivo. E in un panorama videoludico dove troppe produzioni sembrano costruite con lo stampino, Steel Seed osa avere un’anima.