Il 2 agosto 2024, gli Smashing Pumpkins hanno lanciato sul mercato il loro tredicesimo album in studio, Aghori Mhori Mei. Il titolo enigmatico è solo un preludio alla complessità e all’ambizione che permeano questo nuovo lavoro della band di Chicago, ormai capitanata da un irremovibile Billy Corgan. Nonostante la scarsa accoglienza riservata ai loro ultimi album, il gruppo continua a cercare di ritrovare il vigore e la magia che hanno contraddistinto la loro produzione degli anni Novanta. Con Aghori Mhori Mei, Corgan sembra più che mai intenzionato a dimostrare che è ancora possibile ritornare alle radici e produrre qualcosa che, se non rivoluzionario, sia quantomeno degno di essere ascoltato con attenzione.
Dopo l’uscita del mastodontico ATUM: A Rock Opera in Three Acts, la cui grandiosità non è riuscita a far breccia né tra i critici né tra i fan di vecchia data, Aghori Mhori Mei rappresenta un tentativo di ripartenza. «Volevo riportare tutto a casa, tornare alla prima metà dei Novanta come se quel sound cristallizzato potesse ispirare qualcosa di rivelatorio» ha dichiarato Corgan, sintetizzando il desiderio di riscoprire un’epoca in cui gli Smashing Pumpkins dominavano la scena rock alternativa.
Il risultato è un album che, pur non potendo eguagliare la qualità straordinaria di opere come Mellon Collie and the Infinite Sadness o Siamese Dream, riesce comunque a ritagliarsi un posto nella discografia della band come uno dei lavori più coesi degli ultimi anni. Aghori Mhori Mei è infatti un disco in cui Corgan e compagni tornano a guardare al passato, ma con uno sguardo che cerca di coniugare nostalgia e innovazione.
L’apertura è affidata a Edin, un brano che fonde i riff sincopati tipici del periodo di Gish con sonorità più moderne, caratterizzate dall’uso di sintetizzatori e riverberi spaziali. Questa combinazione di vecchio e nuovo diventa il leitmotiv dell’album, in cui la ricerca di un equilibrio tra le radici grunge e hard rock della band e la sperimentazione più recente si fa evidente.
Uno dei momenti più energici del disco è Sighommi, una traccia che si muove agilmente tra sciabolate heavy metal e ritmi funky, con una melodia gommosa che si imprime subito nella memoria. Qui, la base hard rock emerge con forza, riuscendo a evitare le cadute nelle riletture troppo scolastiche del passato che a volte appesantiscono altri pezzi come Sicarus. E se Sicarus si perde in atmosfere sabbathiane, Pentagram e Pentecost mostrano un lato diverso del disco: quello più romantico e malinconico, dove i sintetizzatori si mescolano con chitarre acustiche, richiamando l’eco di Mellon Collie ma con qualche sfumatura che ricorda i Cure di Disintegration.
Nel complesso, Aghori Mhori Mei è un album che, pur contenendo qualche lungaggine e autocitazione di troppo, riesce a presentarsi come un lavoro dignitoso. È un disco che non fa gridare al miracolo ma che, con la sua durata contenuta e la sua coesione interna, dimostra che gli Smashing Pumpkins non sono ancora pronti a gettare la spugna. Per chi ha seguito la band fin dagli esordi, potrebbe sembrare un piccolo successo: un album che, pur non innovando, riesce a restituire un po’ di quello spirito che ha fatto innamorare i fan decenni fa.
Le aspettative erano alte, soprattutto dopo che Corgan aveva dichiarato che questo sarebbe stato un “disco di chitarra rock and roll”, un ritorno alle sonorità che avevano caratterizzato gli Smashing Pumpkins durante la loro fase più creativa e influente. Il lungo processo di registrazione, durato quasi due anni, ha messo alla prova la band, ma ha anche permesso di affinare una rosa di canzoni che, sebbene non siano destinate a entrare nella leggenda, rappresentano comunque un passo in avanti rispetto alle deludenti prove degli ultimi tempi.
La scelta di non pubblicare singoli prima dell’uscita dell’album appare coerente con l’intenzione di far sì che il disco venga ascoltato nella sua interezza, come un’opera unica e indivisibile. In un’epoca in cui il mercato musicale è dominato dai singoli e dalle playlist, questa decisione suona come un atto di resistenza, un richiamo all’idea che la musica possa ancora essere un’esperienza immersiva e non frammentata.
Alla fine, Aghori Mhori Mei non è solo un album, ma una dichiarazione di intenti. È un disco che guarda indietro senza cadere nella nostalgia fine a sé stessa, cercando piuttosto di recuperare quel senso di scoperta e meraviglia che ha caratterizzato i momenti migliori della carriera degli Smashing Pumpkins. Se riuscirà o meno a conquistare i cuori dei fan, solo il tempo lo dirà, ma intanto possiamo dire che, per una volta, Billy Corgan ha mantenuto la promessa di fare felici i fan della vecchia scuola.
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