“Scissione” – Stagione 2: un viaggio intimo nell’identità fratturata

Nel vasto panorama delle serie televisive contemporanee, poche riescono a combinare l’eleganza visiva, la potenza tematica e l’inquietudine esistenziale come “Scissione” (Severance). Dopo il debutto folgorante del 2022, la seconda stagione — nonostante una produzione travagliata e ritardi causati da tensioni creative e scioperi sindacali — torna finalmente su Apple TV+ e lo fa con una delicatezza chirurgica, portando lo spettatore ancora più a fondo nei meandri della mente divisa.

Dan Erickson, creatore e showrunner, dimostra un controllo narrativo impeccabile, mentre Ben Stiller e la direttrice della fotografia Jessica Lee Gagné plasmano un mondo visivo che è al tempo stesso glaciale e febbrile, freddo come i corridoi vuoti della Lumon e intenso come i volti sofferenti dei suoi personaggi. Non è semplice raccontare cosa accade in “Scissione”, non perché sia una serie criptica, ma perché ogni scena sembra portare il peso di significati molteplici, ogni gesto è una domanda sull’identità, ogni sguardo una frattura tra chi si è e chi si è costretti ad essere.

Scissione — Trailer ufficiale stagione 2 | Apple TV+

La stagione si apre con un ritmo volutamente più lento rispetto alla precedente. Non è un difetto, ma una scelta precisa: Erickson espande l’universo della Lumon Industries per dare respiro ai suoi personaggi, a quelle “personalità innestate” — gli Innie — che ora cominciano a interrogarsi sul loro diritto all’esistenza, al di là della funzione lavorativa che li giustifica. È un atto di ribellione, ma anche un grido d’identità. E qui, la scrittura trova la sua più grande forza: non si limita a raccontare un complotto aziendale, ma mette in scena una vera e propria guerra interiore tra il sé di superficie e quello profondo.

Al centro di tutto rimane Mark, interpretato da un Adam Scott semplicemente straordinario. La sua capacità di rendere tangibile la frattura tra il Mark “Outie”, segnato dal dolore e dalla malinconia, e il Mark “Innie”, costretto a recitare una versione sempre sorridente di sé, raggiunge qui il suo apice. Nel momento in cui entrambe le sue versioni iniziano a cercare la moglie Gemma (Dichen Lachman), creduta morta e invece legata in modi oscuri alla Lumon, la serie si trasforma in un dramma esistenziale travestito da thriller sci-fi. Il nono episodio, “The After Hours”, è un punto di svolta emotivo devastante, in cui Scott mette in scena lo scontro tra la consapevolezza e la negazione, tra amore e controllo.

Non meno centrale è la figura di Helly, incarnata con impeto e vulnerabilità da Britt Lower. Se nella prima stagione Helly era il simbolo della rivolta istintiva, ora è anche l’emblema della confusione affettiva: il suo legame con Mark si approfondisce, ma viene manipolato dalla sua controparte esterna, Helena Eagan, che continua a usare i sentimenti della propria metà “spezzata” per i fini della famiglia. Questo sdoppiamento, che potrebbe suonare forzato in un’altra serie, qui diventa straziante — come se ogni personaggio vivesse una tragedia greca intrappolata in un algoritmo aziendale.

Un altro arco narrativo che sorprende per maturità e sensibilità è quello di Dylan, interpretato da Zach Cherry. La possibilità concessa al suo Outie di vedere la moglie mentre è ancora “al lavoro” crea un cortocircuito emozionale toccante. Dylan diventa il primo esempio concreto di come le due versioni di una persona possano finalmente riconoscersi e accettarsi, portando una speranza che però viene subito messa in discussione da una struttura che si regge sulla negazione dell’individualità.

Ma è Irving, interpretato da un intenso John Turturro, a dominare con un arco narrativo che fonde amore, paranoia e sacrificio. Il suo rapporto con Burt (Christopher Walken) evolve in un secondo atto tragico e poetico, carico di tenerezza e rimpianto. L’ostinazione con cui Irving cerca la verità — e la bellezza con cui quella verità viene rivelata — rappresentano il cuore più puro della serie: il desiderio umano di capire chi siamo veramente, anche a costo della sofferenza.

La regia, firmata anche da Jessica Lee Gagné nell’episodio “Chikhai Bardo”, offre un linguaggio visivo sempre più vicino al cinema d’autore. Le atmosfere ricordano Eternal Sunshine of the Spotless Mind e Dollhouse, ma con una cifra tutta propria. Il loop narrativo che inizia con la corsa disperata di Mark e termina con quella liberatoria insieme a Helly è un colpo di genio che incapsula tutto il significato della stagione: dal panico alla speranza, dalla separazione alla riconnessione.

La serie non è priva di difetti. Alcune sottotrame, come quella di Harmony Cobel (Patricia Arquette), risultano allungate oltre il necessario. I momenti dedicati alla sua vita post-Lumon rallentano il ritmo in modo forse eccessivo, anche se trovano una loro ragione narrativa nell’ottavo episodio, dove il suo legame con l’azienda assume contorni più umani e meno ideologici. In compenso, Seth Milchick (Tramell Tillman) si rivela una figura sempre più interessante: il suo ruolo di aguzzino per necessità, costretto a mantenere l’ordine in un sistema che lui stesso non comprende più, regala momenti di grande tensione e ambiguità.

Visivamente, “Scissione” si conferma come una delle serie più affascinanti della televisione contemporanea. Le ambientazioni glaciali, i giochi di luce e la regia ipnotica trasformano ogni episodio in un’opera d’arte inquieta. L’episodio ambientato a Woe’s Hollow e quello nel villaggio di Sweet Vitriol sono esempi perfetti di come forma e contenuto possano fondersi per raccontare la desolazione interiore dei personaggi.

In definitiva, la seconda stagione di “Scissione” non è solo un ritorno riuscito: è un passo avanti nella costruzione di una mitologia moderna che parla di libertà, identità e amore in tempi di sorveglianza e alienazione. Ogni personaggio lotta per affermare la propria esistenza, ogni scena è una riflessione sul nostro rapporto con il lavoro, con la memoria, con il corpo. E se è vero che il finale lascia molte domande aperte, è altrettanto vero che ormai siamo pienamente coinvolti: come gli Innie, anche noi spettatori siamo diventati parte del sistema.

La buona notizia? La terza stagione è già stata annunciata. E dopo un finale così intenso, l’attesa non farà che aumentare il desiderio di tornare a varcare — ancora una volta — le porte della Lumon.

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