Con L’uomo fiammifero piombiamo sorprendentemente (ma senza sentire il peso di un’ambizione eccessiva) in una pigra e luminosa campagna estiva abruzzese dalle atmosfere burtoniane. Buona la fotografia di un film che ci trasporta nel bel mezzo di un’estate lontana, quella del 1982. Campi coltivati, una bicicletta bianca, gli animali, le balle di grano appena mietuto, i casolari aperti, disordinati, senza inferiate nè recinti. Aria di libertà, anche se c’è stato un dolore enorme: la scomparsa della prima cosa bella, per usare una definizione cinematografica attuale, la perdita di una mamma giovane e affettuosa. Ma a quell’evento terribile sopravvivono le magiche risorse di un bambino scapigliato e comunque incantato, che vive lo stesso a briglie sciolte la propria meravigliosa e fugace stagione. Simone elabora in maniera particolarissima e commovente il lutto più terribile, e quell’Uomo fiammifero immaginato e raccontato da una tenera madre (efficaci i momenti visionari in cui il ragazzo ricorda la donna) domina il suo sogno ad occhi aperti, alimentando silenziosamente la speranza di un abbraccio impossibile, la fiducia nella ricomposizione, intimamente desiderata, di un’armonia tragicamente spezzata dalla natura. Il bel bambino, sensibile negli occhi e nei comportamenti, si lega alla speranza che l’Uomo fiammifero, essere magico dalle lunghissime gambe, gigante magrissimo con un cappello in testa a forma di cilindro, capace di accendere ogni sera tutte le stelle del cielo, e di esaudire ogni desiderio umano, possa passare dalle sue parti, un giorno, ad esaudire anche i bisogni della sua vita e della sua età. Ma in quell’intervallo di tempo e d’attesa, riempita d’avventure e stratagemmi continui, il sogno dell’uomo fiammifero già restituisce al protagonista tutta la bellezza e l’incantesimo dell’infanzia.
da http://www.close-up.it