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L’angolo del GdR – Sapori diversi da coltivare ed equilibrare

 Nel mio articolo su Mass Effect: Andromeda, ho accennato a un aspetto secondo me molto importante nella costruzione di un mondo di gioco “credibile”, vivace e coinvolgente – il fattore affettivo, coltivato attraverso l’inserimento del giocatore in un ambiente pieno di vita cui possa affezionarsi. Probabilmente sono di parte, ma in senso più ampio credo che un GdR non possa mantenere a lungo l’interesse del giocatore, a meno che non continui ad affascinarlo e sorprenderlo, ed è naturale che persone diverse siano attratte e stupite da elementi e “sapori” diversi.

Il rimando a Dungeons & Dragons non è casuale, perché come tanti altri giochi, i GdR, prima di entrare nei nostri PC e console, affidandosi così ai potenti mezzi dell’informatica, vivevano fondamentalmente della pura immaginazione dei giocatori, delle persone. Unico supporto e sostegno, in quell’epoca non ancora conclusa, erano carta e matita, i manuali con le regole, ed eventualmente una mappa con delle miniature. Poteva far comodo una calcolatrice, ma il sistema di base è così “primitivo” per gli standard di oggi che, fatto eclatante, ci si può giocare anche senza corrente elettrica, senza prese, senza (carica)batterie. Il GdR “carta & penna” inoltre costituisce un buon esercizio di fantasia, perché luoghi fantastici, mostri, eroi, difficili decisioni, i vivi dettagli delle storie e i reami da salvare (o devastare…) risiedono unicamente nella nostra immaginazione.

Quando si parla di Gioco di Ruolo (partendo dal genere fantasy), storia, avventura e interpretazione non dovrebbero mancare, e sono almeno idealmente connaturate all’esperienza. Sul Game Master ricade il compito di costruire la storia e realizzarla passo dopo passo a beneficio del suo partecipativo pubblico. Lui, o lei, agisce se vogliamo come cantastorie della situazione. Infatti, un po’ come nei perduti tempi d’oro dei cantastorie, quanto succede ha sviluppo per lo più regno del parlato, con tutti i suoi pregi e difetti. Nel GdR però, chi ascolta risponde, partecipa e contribuisce allo sviluppo di vicende che ad ogni svolta si adattano contestualmente alle decisioni dei giocatori, sotto la guida del Master: “Tiro per scassinare quello scrigno grassoccio!” “Vuole incastrarci! Io lo sceriffo non lo sopporto più, se attacco, mi venite dietro…?” “Faccio un tiro di diplomazia per convincere il duca a dimenticare quell’episodio…” E così via.

Sia nei manuali che al di fuori si è anche riflettuto su intesa e coesione che sono necessari a un gruppo funzionante, divertente e durevole, e che spesso si rivelano sfuggenti, semplicemente mancanti, o forse difficili da mantenere nel tempo. Molte e diverse riflessioni sul GdR concordano che fiducia e accordo sono fondamentali per il gruppo. Il Master e i suoi avventurieri devono cercare qualcosa di ragionevolmente simile. É stata modellata una gran varietà di “giocatori-tipo” e personalità. Se vogliamo si tratta di una sorta di quadratura del cerchio, perché ogni essere umano è unico, ma in tutti i campi in cui la statistica aiuta, tentare di definire dei modelli di riferimento è, penso, educativo e utile.

Per l’articolo di oggi, cercherò di restringere il campo a due grandi direzioni. Da un lato c’è la ricerca di una storia (con relativa scenografia) che sia emozionante, sorprendente, articolata, immersiva, “cinematografica” e trascinante. Dall’altro, il desiderio di andare al sodo, macinare mostri, “combinare qualcosa”, cambiare il mondo ed ammassare tesori che farebbero invidia a qualunque drago. In ultimo si tratta di creare un personaggio dai poteri leggendari, e di godere dei privilegi di tale posizione. Le due attrattive si possono combinare, spesso con reciproco beneficio, dando luogo a varie, efficaci sfumature, e penso che nessun giocatore di GdR voglia che un aspetto prevalga in modo schiacciante sull’altro.

Dato che lo scopo primario e dichiarato di un gioco è, o dovrebbe essere, il divertimento, il suo successo dovrebbe dipendere da quanto, e quanto a lungo può intrattenere. Eppure fatti ovvi come questo possono uscirci di mente, sepolti dalla frenesia dell’accumulo di ricchezze, oggetti e livelli.

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Il GdR carta & penna è riconosciuto come il progenitore dei grandi e sempre più ambiziosi GdR videoludici di oggi. Pensiamo a Diablo 3 di Blizzard, Dragon Age: Inquisition di Bioware, o The Witcher 3: Wild Hunt di CD Projekt Red. Ciascuno di questi tre titoli ha scelto un proprio equilibrio, il proprio compromesso nella questione che vede spesso contrapposte narrazione e combattimento, descrizione e ritmo, cura per il dettaglio e pragmatica sostanza; ricchezza e profondità artistica “contro” precisione, abilità, testardo impegno e semplice, cieca fortuna. Vi si inserisce anche l’eterna contesa tra qualità e quantità. Diablo 3 è stato rivoluzionato da un massiccio update che ha di poco preceduto l’uscita della sua espansione, Reaper of Souls. La storia raccontata da Diablo 3, anche se curata dal punto di vista estetico (sempre ottimo il comparto artistico), potrebbe non sorprendere, e i personaggi che agiscono al suo interno sono abbastanza semplici e prevedibili. Allo stato attuale delle cose, si tratta di “livellare” ed equipaggiare velocemente il nostro eroe in modo che possa presto accedere alla continua rincorsa verso mostri più potenti, ricompense più ricche, e imprese che richiedono maggiore abilità ed equipaggiamento iper-raffinato.

Quello che inizia come sfida interessante e appassionante diretta al perfezionamento del proprio protagonista, però, rischia col tempo di perdere il proprio colore, e di scadere nel cosiddetto grind. Nell’ambito videoludico si intende con grind un processo meccanico, una routine quotidiana che può assomigliare a un “lavoro” noioso e pesante. Dopo gli scontri che servono per conoscere il sistema ed imparare a gestirlo, col passare del tempo il gioco tende a trasformarsi in una sorta di prassi. Eliminare mostri è solo il primo passo: bisogna saperlo fare efficientemente, massimizzando il guadagno per unità di tempo.  Sempre in accordo con il significato del verbo inglese “to grind” si parla per l’appunto di “macinare” quantità innumerevoli di mostri per completare quest e guadagnare denaro e punti esperienza, o per raggiungere obiettivi che, passata la frenesia dell’accumulo, potranno sembrare irrilevanti.

Questa graduale e spesso non-percepita “riduzione alla prassi” lavora contro il senso di freschezza e di sorpresa che i titoli migliori mantengono per tutta la loro pur sempre limitata durata. Almeno idealmente, un buon GdR dovrebbe essere tutto tranne che ordinario e di routine, continuando nel suo corso ad offrire quell’ingrediente segreto che ne mantiene il sapore ed evita di farlo scadere in una scialba ripetitività.

Il gioco, in sostanza, vale la candela solo fino a che continua, nel senso più ampio, a suscitare emozioni. Sta al giocatore avere la capacità di conoscere se stesso e le proprie preferenze, e sapere quando arriva il momento in cui, che ci venga detto o meno, un certo gioco è compiuto e quello che davvero si sta facendo non è più giocarlo, ma ri-giocarlo. Alcuni titoli eccezionali edificano mondi ed universi immaginari, con luoghi, dialoghi, colpi di scena e personaggi veramente accattivanti ed impressionanti in quanto si imprimono in modo duraturo, vivendo “di vita propria” nel nostro ricordo anche dopo il termine dell’avventura.

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Così ci fanno desiderare il ritorno a simili, esotici ed avventurosi lidi, e, sottolineo, -nuove- imprese da compiere. Vorrei portare come esempi virtuosi Dragon Age: Origins e Star Wars: Knights of the Old Republic di Bioware, oltre a The Elder Scrolls: Skyrim di Bethesda. Volendo stringere, visto lo spazio (e il tempo) a disposizione, i due titoli di Bioware puntavano sulla caratterizzazione dei personaggi e sulla credibilità dei rapporti umani (se ne ricordano i dialoghi e le buone prove attoriali) mentre Skyrim proponeva un’ambientazione vasta, paesaggi naturali convincenti, dettagliati e pieni d’ispirazione.

Per intenderci, “piccoli” dettagli come il sorgere e il tramontare del sole, il rumore di un soffio di vento che agita i rami degli alberi, il canto degli uccelli di giorno o dei grilli di notte, lo sciabordio dell’acqua ai piedi una cascatella, i colori pittorici di un tramonto tra le cime innevate che troneggiano su una verde vallata, sono solo alcuni degli elementi che danno realmente vita al paesaggio fantasy dei nostri sogni. A questo punto bisogna solo aggiungere il giusto sottofondo musicale per farci sprofondare in un “epico” reame da leggenda, portandoci a un passo dalla sensazione fisica di respirarne l’aria.

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Combattere, sconfiggere mostri per proteggere, vincere e guadagnare (oltre che  adempiere al nostro “destino eroico”) rappresenterà sempre, penso, un lato importante e divertente dell’avventura,  e un aspetto da curare per gli sviluppatori che ce la propongono. Combinare abilità diverse, utilizzare al meglio il terreno dello scontro, conoscere e costruire il personaggio è parte di quel processo che ci cala nella “vita ideale” del protagonista fantasy. Tuttavia temo che senza un’atmosfera fresca e accattivante, senza una miscela vincente di colori,  suoni e le melodie, senza la sinergia di costumi, voci e parole, senza volti umani, senza umane gioie e preoccupazioni, e senza una buona dose di spade, mostri ed incantesimi, il fantasy rischi di perdere “il sale”, il sapore essenziale, e la propria ragion d’essere.

Anche all’interno di giochi progettati per avere una notevole ampiezza e durata si possono registrare dei compromessi, forse necessari. Dragon Age: Inquisition ha suscitato qualche critica per via delle sue “missioni riempitive”, che sono state accostate a certe “tipiche” missioni da MMORPG. Non si trattava di procurarsi 10 code di lupo, macinando orde di lupi per lo più senza coda (assurdo, lo so), ma di svolgere comunque compiti ripetitivi all’interno del mondo di gioco, con dialogo di contorno snello o assente. Una missione del genere può risultare piuttosto impersonale, meccanica e insipida. Tuttavia, a parte qualche problema, Inquisition offre un’esperienza che si mantiene su livelli alti: sistema di combattimento interessante, storia ed ambientazione nel complesso ben fatte, ed una campagna di lunga durata (90-100+ ore al primo tentativo con tutte le quest secondarie).

Inquisition ha riavvicinato la saga di Dragon Age ai fasti del primo episodio che menzionavo prima, Dragon Age: Origins, che per me personalmente rappresentò a suo tempo una sorta di “fulminazione”. Vi dico solo che i compagni di viaggio del protagonista mi piacquero tanto che non volevo perdermi una parola delle loro battute. Anche per voi, immagino, alcuni titoli-chiave avranno rappresentato il massimo registrato, l’optimum per quanto riguarda uno specifico aspetto: combattimento, strategia, simpatia, ambientazione, intreccio, comparto artistico, innovazione, e così via. L’obiettivo per gli sviluppatori è ottenere da noi voti elevati in tutte queste voci di riferimento dei GdR videoludici. I problemi insorgono quando, anche in presenza di valori alti in più di una di queste categorie, si nota che una o più sono in affanno. Mass Effect: Andromeda, per esempio, soffre dal punto di vista del coinvolgimento e dell’ambientazione, e a giudizio di molti compie più di un passo indietro rispetto al predecessore, Mass Effect 3.

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Arrivando, in chiusura, a The Witcher 3, si può dire che la forte approvazione della critica e, cosa probabilmente più importante, il grande successo di pubblico, si debbano al delicato e riuscito equilibrio che gli sviluppatori di CD Projekt Red hanno saputo costruire per la loro creatura. Alcuni giocatori, come non si stancano tuttora di dire, sono stati incantati dall’atmosfera, o coinvolti dalla personale storia di Geralt di Rivia, dai suoi amici, amori ed avventure. Altri hanno accettato la sfida dei livelli di difficoltà più ostici, per spremere il massimo dal sistema di combattimento ed affrontare con successo mostri davvero terribili. Si tratta di un obiettivo raggiungibile solo attraverso preparazione, abilità e perfetta sintonia con le micidiali abilità del famoso cacciatore di mostri. Stupisce il fatto di trovare in The Witcher 3 momenti di “puro GdR” che ci mettono di fronte scelte difficili e relative conseguenze, accostati alla più “mondana” gestione delle risorse, a combattimenti interessanti, grafica e realizzazione artistica di altissimo livello. Vi si aggiunge un panorama naturale e umano capace quasi senza sosta di offrire emozioni. Accontentare tutti probabilmente è una chimera, una missione impossibile, ma The Witcher 3 riesce nel proposito di offrire un’esperienza di pregio a un largo pubblico, e lo fa trovando il modo di emozionare tante persone diverse.

Chi propone il prodotto mira ad ottenere il nostro consenso, ma è importante ricordare che lo fa rispondendo alle nostre necessità, le nostre preferenze, i nostri desideri e i nostri sogni. Per chi offre l’avventura, la sfida è simile a quella del Master “di una volta”. Si tratta di riuscire nella vera e propria impresa di creare e mantenere un equilibrio virtuoso, imbandire una “tavola” sulla quale i giocatori trovino quello che cercano, e lo trovino ottimo e abbondante. Come quando ci si alzava dal tavolo dei GdR carta e penna, idealmente la domanda con cui ci si lascia dovrebbe essere: “Quando ci si vede per la prossima partita…?

Francesco Pellegrini

Francesco Pellegrini

Autore del romanzo La Ragazza Spaziale, scrive articoli di settore avventura, fantasy, gaming. È appassionato di lunga data di Star Trek, Star Wars, di videogiochi e di romanzi, in particolare di Tom Clancy, Michael Crichton, Lee Child, J.K. Rowling.
Laureato con Lode in Lingue, la sua riflessione verte principalmente sullo storytelling e sull’importanza del raccontare in ambito letterario, televisivo, cinematografico e videoludico.

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