Quando si comincia a temere per l’integrità fisica di un personaggio di carta, quando Disney riesce a ricostruire una credibile realtà con il suo nuovo stile di animazione: allora la morte entra davvero nel mondo del cinema d’animazione. Fondamentalmente, in Biancaneve e i sette nani.
(© Luca Raffaelli)
Winsor MccayAll’inizio, nel 1918, realizzò un film unico nella storia: “The Sinking of Lusitania”, un documentario d’attualità animato che mostrava l’affondamento di una nave, con la morte dei suoi passeggeri. Da allora il cartoon, divenuto prodotto popolare e per famiglie, per molto tempo non osò più raffigurare la morte direttamente, facendo suo un tabù della nostra civiltà.
D’altra parte per tutto il periodo del cartone muto la morte non poteva avere posto. I personaggi erano tubi di gomma, figurine simpatiche, fragili e non vive: dunque, immortali. Perfino gli scheletri che danzano nella celebre Silly Symphonie di Disney (The Skeleton Dance, 1929) sono creature bizzarre che davvero poco hanno a che fare con la decomposizione del corpo. La morte entra nel gioco dei disegni animati solo quando un personaggio può aspirare ad essere credibilmente vivo.
Questa breve ricerca non vuole – e non può – essere esaustiva di un tema delicato e complesso come quello proposto. Si vogliono solo proporre alcuni spunti di ricerca attraverso i quali comnciare a delineare l’atteggiamento che il cinema d’animazione (in tutte le sue forme) ha avuto nei confronti della morte.
Quando in Biancaneve e i sette nani la regina cattiva trasformata in strega cade dal dirupo con il suo grido straziante, noi sappiamo che muore (dagli avvoltoi che prendono il volo, dall’espressione dei nani), ma non la vediamo. La morte si propone tradizionalmente come l’elemento che riesce a sconfiggere il male, mentre il bene è costituito dalla vita eterna: i buoni vivranno per sempre felici e contenti. Grande era la capacità di Disney nel fare da specchio alle nostre speranze e alle nostre paure.
Per lui non era vero che la morte “è solo una bella avventura della vita”, frase di Charles Forman, una delle vittime del Lusitania, riportata da Winsor McCay nei quattro ritratti fotografici inseriti nel suo film. E forse non era vero neppure per McCay perché la morte, in “The sinking of Lusitania”, era stata una tragedia anonima e collettiva, di ombre che cadono da una nave, di corpi galleggianti.
Solo una mamma che annega con il suo bambino sfugge alla fredda ricostruzione storica, alla visione lontana, distaccata della morte, rappresentandola, sia pure per pochi secondi, come uno dei momenti più intimi, personali e importanti della vita umana.
A dire il vero c’è morte anche nella vicenda di Biancaneve: la protagonista del film è senza vita in una bara, i nani la piangono. Ma in questo caso la fine viene mostrata in quanto sconfitta. La resurrezione, causata dall’arrivo del Principe, annulla la morte della vita e preannuncia l’eternità, l’inizio della felicità eterna, in un finale che è un grande richiamo alle risposte escatologiche delle grandi religioni universali e soprattutto della cattolica. Abbiamo avuto modo in soli due film, di vedere dunque quattro aspetti della morte:
Morte come tragedia collettiva e Morte come dramma personale incomunicabile nel cortometraggio di McCay. Morte come punizione e Resurrezione dalla morte in Biancaneve. Nel primo caso abbiamo una visione laica della vita, nel secondo una visione formalmente religiosa.
Negli stessi paragrafi nati con il film di McCay inseriamo anche “Pica-Don”, il cortometraggio animato di Renzo Kinoshita del 1978 che racconta, con disegni realistici e crudi, la terribile esplosione della bomba a Hiroshima mentre gli abitanti della città sono intenti a iniziare l’attività di una nuova giornata. Ancor più dei morti impressionano, in quei disegni – inquietanti quanto le fotografie della tragedia – i sopravvissuti, costretti a sopportare tormenti infernali. Nelle ultime sequenze del film, si affaccia la speranza della rinascita, la possibilità di superare la tragedia attraverso uno sguardo vitale verso il futuro.
Ma per riprendere il filo cronologico sull’apparizione della morte come elemento narrativo di un film animato, la nostra attenzione deve ora spostarsi verso un elemento classico della letteratura dell’infanzia: la morte del genitore. Come scrive Bruno Bettelheim nel suo “The Uses of Enchantment. The Meaning and Importance of Fairy Tales”: “Molte storie cominciano con la morte di una madre o di un padre; in queste fiabe la morte del genitore crea i problemi più angosciosi, così come essa (o la paura di essa) li crea nella vita reale”.
In “Bambi”, del 1941, la morte della madre del cerbiatto avviene nel corso del film, e si contrappone in maniera evidente alla nascita del protagonista, ampiamente celebrata nella prima parte. E’ questo il film in cui Disney cerca un diretto confronto con la Natura e le sue leggi: lo stile cerca di riprendere le vere forme degli animali, con poche forzature caricaturali, l’ambiente vuole essere il più vero possibile, pur accogliendo animali parlanti e dagli umani atteggiamenti. Anche la morte della mamma di Bambi è una morte che non si vede: mentre Bambi e sua madre corrono per salvarsi si sente uno sparo e poi è solo Bambi a correre.
Nei pochi secondi successivi vengono riassunte tre fasi del lutto: l’incapacità di accettare la morte (Bambi continua a cercare la madre), la lenta fase di rielaborazione del lutto stesso (Bambi non trova neppure il corpo della madre mentre continua a vagare tra una cadere di neve sempre più fitto che non gli permette di vedere aldilà di sé), e infine l’accettazione tramite l’incontro rivelatore con il severo ed autorevole padre, Great Prince of the Forest: “La tua mamma non tornerà mai più. L’uomo l’ha portata via. Devi essere coraggioso. Devi imparare a vivere solo. Vieni, figlio mio”.
Del tutto adulta la rivisitazione satirica che di questa tragedia animata ha dato un episodio degli Animaniacs, “Bumbie’s Mom”. Qui Skippy Squirrel, prima dentro, poi fuori la sala cinematografica, non si dà pace all’idea che la mamma di Bumbie sia morta davvero. La disincantata Slappy Squirrel tenta di spiegargli che si tratta di una finzione cinematografica e lo porta dalla star in ritiro che interpretò la parte di quella mamma, dimostrandogli così che è ancora viva. Ma la stessa tragedia si ripeterà pochi minuti dopo sull’aereo alla visione di Zanna Gialla. E’ evidente che, attraverso la finzione, si trova un modo alternativo e indiretto di affrontare le proprie paure, come diceva Bettelheim. Per Skippy Squirrel il problema non è ancora risolto: la star è viva, ma la madre di Bumbie è comunque morta davvero e per sempre.
Sempre nel paragrafo riguardante la morte del genitore si dovrebbe parlare per molte di quelle serie giapponesi (Heidi, Remy, eccetera) ispirate a libri europei per l’infanzia che adottano protagonisti orfani (di madre o di padre o, sovente, di tutti e due). Ma spesso si tratta di un espediente narrativo appropriato a costruire intorno al personaggio un costume fatto di solitudine, vulnerabilità e libertà di movimenti.
Meno soli, vulnerabili e liberi sono i due leoni Kimba e Simba, figli di Osamu Tezuka il primo, della Disney il secondo. Il padre di Kimba muore quand’egli non è ancora nato, nel tentativo di liberare la sua compagna, fatta prigioniera dagli uomini. E’ lei a costringere il piccolo a lasciare la gabbia e la nave dov’è costretta e ad affrontare il mare per vedere realizzato il sogno del padre: un mondo animale dove le specie smettano di uccidersi e mangiarsi e dove si realizzi la fratellanza universale che gli uomini non potranno né vorranno mai realizzare.
Il Re Simba che la Disney non ha mai ammesso essere ispirato al leone di Tezuka, apre invece un capitolo che potremmo chiamare: la morte come senso di colpa. Simba infatti non segue le orme del padre per far diventare realtà un’utopia, ma per poter convivere con il peso di aver causato la morte del padre (che perde la vita nel tentativo di salvare lui: la confessione di colpa da parte di Uncle Scar lo aiuta solo ad entrare ancora di più nel suo ruolo). Per dirla con Freud, Simba avrebbe reagito inconsciamente all’ostilità rimossa verso un padre altero, egocentrico e spigoloso, diventando – dopo un periodo di libertà e di amore – esattamente com’era Lui e come Lui avrebbe voluto che egli fosse. A nulla serve una propria presunta forte identità… se manca la forza per saperla difendere. E’ proprio il caso di dire che il leone diventa Re solo per meriti ereditari.
52 anni sono trascorsi da Bambi e lo si vede (entrambi i film hanno momenti di straordinario impatto e forza narrativa): la scena della morte è registrata in tutti i suoi particolari. E particolarmente tragica è la scena in cui il piccolo Simba cerca di muovere il corpo del padre, lo incita ad alzarsi. Eppure, mentre Bambi rimuoveva dalla vista la morte ma risolveva il suo lutto velocemente, Simba ci mostra quel che poi non riesce a superare. La qual cosa potrebbe voler dire: familiarizzando con la morte attraverso le immagini di morte (alla televisione, sui giornali) non illudiamoci di risolvere il suo rapporto con essa.
Rispetto alla serietà disneiana, alla morte credibile dei suoi personaggi disegnati pieni di credibilità, si contrappone naturalmente l’anarchia degli autori Warner che con una risata seppelliscono davvero anche il tristo mietitore. La morte come finzione della morte.
Già in “A Wild Hare”, suo primo film del ’40, firmato da Tex Avery e animato da Robert McKimson, Bugs Bunny finge di venire colpito da una fucilata di Elmer Fudd e di essere vicino alla morte. Con la sua strepitosa performance condita da colpi di tosse strozzati e da momenti di alta teatralità riesce a scatenare un senso di colpa irrefrenabile, al culmine del quale il fesso di turno viene colpito da un calcione nel didietro. Stessa identica situazione in “The Old Grey Hare” di Bob Clampett, quando tutto questo avviene nel 2000, con i due personaggi invecchiatissimi e pieni di ricordi. Bugs Bunny “morente” si scava la fossa, ma alla fine, ovviamente, sarà l’altro a finirci dentro.
Anche in “Corny Concerto” Bugs finge di essere colpito al petto al ritmo di un valzer di Strauss: ma quando Porky Pig riuscirà a staccare le sue mani – che coprono quella che doveva essere una ferita mortale – sotto troverà un reggipetto e Bugs comincerà ad urlare indignato per l’affronto subito.
In “The Heckling Hare” ed in “The Falling Hare” Bugs finge di essere terrorizzato all’idea che l’aereo sul quale sta viaggiando stia precipitando a velocità stratosferica. Anche la paura della morte è finta, come il cartone animato di cui è protagonista: nel primo tira un freno, nel secondo fa sapere che è finita la benzina. Comunque sia, in tutti e due i casi, a un centimetro da terra e perpendicolarmente al terreno, l’aereo si blocca.
Ancora in Tex Avery troviamo un altro aspetto della morte che fa ridere: la morte come eccitazione fatale. E’ noto che i suoi personaggi quando vivono una forte emozione si smembrano, si deformano, si torturano, si autoflagellano. Bisogna essere giovani per reggere alla forza delle emozioni averiane. Infatti in “The Little Tinker” una coniglietta molto in là con gli anni e innamorata come le giovanissime della puzzola che canta alla maniera di Frank Sinatra (dalla sua sedia a rotelle riesce a sentirlo con il cornetto acustico), dopo aver manifestato la sua eccitazione fischiando, aver fatto la ruota come i ginnasti (più e meglio di loro) e dopo essere zompata in aria fino ad altezze stratosferiche gridando al colmo dell’emozione, non regge a tanto stress e ricadendo al suolo si infila direttamente sottoterra. Per completare la scena ecco che dal cielo arriva anche una piccola lapide di marmo a segnalare l’avvenuta sepoltura. Su questa è scritto solamente: Oh Frankie!
Da sottolineare inoltre che Tex Avery è stato unico nel dare una quasi morte a un protagonista: Screwy Squirrel viene stritolato dal cagnone “Lonesome Lenny” (il cortometraggio è del ’46), tanto che non può più muoversi (ma lo scoiattolo ce la fa almeno a prendere un cartello con su scritto: sad ending, isn’t it?, cioè: triste finale, no?). Effettivamente questo è l’ultimo cartoon in cui compare Screwy Squirrel.
Una novità dell’ultima ora è invece la morte come tormentone. Nella serie televisiva “South Park” il personaggio Kenny muore in tutte le puntate: può morire più volte nella stessa puntata, oppure può far credere di morire e invece riappare in vita per poi morire davvero. Di certo la grande sorpresa riguardo il suo destino è avvenuta nella puntata n. 110. Kenny, in quella puntata, non muore! Di fronte alla morte presentata in serie, come fosse un avvenimento di nessuna importanza ma in compenso molto spettacolare, e questo accade spesso nei film d’avventura, South Park con la sua satira capovolge il meccanismo: non morti di massa, ma morte di uno solo, sempre lo stesso. Quello di Kenny sembra un destino segnato ed esagerato, non troppo distante da certi destini dettati dalla mitologia greca.
A proposito di morti standard nei film avventurosi: questa relazione non può prendere in esame la morte quando questa viene vissuta come è tradizione nella letteratura e nel cinema giallo e d’avventura, e quindi essenzialmente come eliminazione di un uomo, di un nemico, sia esso soldato, cowboy, ladro, poliziotto o comunque membro di un gruppo nei confronti del quale si oppone resistenza o violenza. Insomma, la morte come mero espediente narrativo. Ci interessa invece sottolineare come le peculiarità linguistiche del cinema d’animazione permettano soluzioni e situazioni altrimenti impossibili. Proprio a proposito di cow-boy, ricordiamo ad esempio quelli uccisi nella serie “Cuttlas”, in cui tutti i personaggi sono disegnati con un tratto semplicissimo, del tutto infantile. Eppure le morti, segnate dalla presenza del sangue, e cioè del colore rosso che risalta tra tanti bianchi, neri e colori tenui, riesce comunque ad essere un avvenimento drammatico, capace di creare disperazione, di mettere agitazione, di causare movimento. Come in una parodia del mondo umano vissuta da questi piccoli, stilizzati uomini formica.
Nel cortometraggio ungherese “The Fly” di Ferenc Rofusz, premio Oscar nel 1981, l’insetto protagonista del percorso che noi viviamo nella sua soggettiva, è destinato ad entrare in una villa e, dopo essersi difeso dai ripetuti assalti da parte di un essere umano del quale non si vedono mai le sembianze, ad essere ucciso contro il vetro di una finestra. Infine ad essere infilzato con un ago in un classificatore per entomologo. Potremmo con questo film inaugurare un paragrafo dal titolo: morte come ovvia sconfitta finale del più debole. E si tratta una evidente allegoria dell’uomo a confronto con il Potere con la P maiuscola.
Più filosoficamente distaccata, più ascetica la posizione di Bruno Bozzetto nel cortometraggio Cavallette, nomination all’Oscar nel 1991. Qui tutta la storia dell’uomo è riassunta in pochi secondi, osservata attraverso un binocolo rovesciato. Le guerre (tutte le guerre), le lotte di potere, di religione, di razza, le distruzioni di grandi imperi per la costruzione di nuovi imperi a loro volta destinati alla distruzione, e quindi tutte le morti violente, non sono altro che il misero, drammatico gioco di una specie animale, quella umana, destinata a sparire. Lascerà così spazio all’erba, capace di invadere (diamole solo il tempo necessario) qualunque torre di Babele, piramide, teatro, partenone, grattacielo e lascerà spazio alle cavallette (che, nel cartone, incuranti di tutta la Storia che scorre, tranquillamente se la spassano creando la progenie: in fondo meglio questi insettini verdi che i più antipatici scarafaggi). Insomma: tutto ciò che ci siamo presi per costruire il nostro teatrino umano, lo ridaremo alla Natura, madre di tutte le creature ma anche impietoso esecutore del proprio destino.
La visione della morte in questo film di Bozzetto (potremmo definirla “morte come elemento della Storia dell’uomo o della sua natura”) non equivale affatto a un’indifferenza nei confronti del destino umano, ma propone una visione più oggettiva dello stesso, e quindi più cosciente. Cosciente che esiste un fine, o – perlomeno – una fine di tutto. E proprio per questo, ci dice Bozzetto, l’uomo potrebbe vivere la propria Storia con un po’ di saggezza e lungimiranza in più.
Potremmo paragonare questa saggezza vitale alla stessa che emerge dai toni e dalle parole di Joe Gillis, lo sceneggiatore interpretato da William Holden. In “Viale del tramonto” di Billy Wilder è lui, annegato in piscina, a raccontarci con rimpianto e comprensione le vicende troppo umane che lo hanno visto protagonista insieme alla ex-diva Norma Desmond interpretata da Gloria Swanson.
La morte come condanna dell’indifferenza può invece essere il titolo del paragrafo che include senz’altro “The Dance of Death” dell’australiano Dennis Tupicoff. Qui la morte, ovvero uno scheletro umano, conduce uno sciocco varietà televisivo. Gli spettatori inebetiti dal programma nemmeno si accorgono di applaudire la morte e il suo trionfo, nell’annullamento di ogni senso critico, di ogni istinto vitale. Non si può non essere contrari a certe aberrazioni televisive, ma – personalmente – non condivido questa visione così pessimista della comunicazione di massa. Gli orrori del mondo sono di fronte ai nostri occhi (e perlopiù grazie alla televisione): ma guerre, stragi e violenze di ogni genere hanno flagellato il genere umano anche quando il mezzo televisivo non era stato inventato. Questo non vuol dire che non lo si possa criticare, certamente: ma una visione troppo parziale e che tenga conto degli effetti più che delle cause (per esempio: l’indifferenza delle masse è causata dalla tv o da essa resa manifesta?) è superficiale e demagogica: proprio come, spesso, la televisione.
Dennis Tupicoff ha recentemente realizzato un altro cortometraggio (“His Mother’s Voice”, 1997) sulla base di una registrazione sonora davvero toccante: l’intervista a una madre che racconta i momenti in cui ha saputo che il figlio sedicenne era stato ucciso. L’intervista viene ripetuta integralmente due volte, mentre Tupicoff commenta con stili e tecniche diverse, cercando da una parte di entrare nelle parole disperate della donna, di non sfuggire al terribile dramma, dall’altra di trovare una via d’uscita, un percorso di vita che uccida la morte. In questo caso potremmo intitolare il paragrafo: la morte degli altri come tragedia personale.
Ci sembra giusto contrapporre a questo punto la morte serena di “The Man Who Planted Trees”, film dell’87 che vinse tutto il vincibile. La fine di un uomo che ha portato a termine il percorso della sua meravigliosa esistenza. Una fine cui né Jean Giono, autore del racconto, né Frédéric Back, artefice di questo capolavoro animato, si soffermano. A pochi secondi dalla fine della mezz’ora di film, le parole sono dedicate alla costanza, alla grandezza d’animo e “alla generosità accanita di questo atleta di Dio”, mentre i disegni ritraggono il protagonista a Mezzo Busto su fondo bianco. L’inquadratura si avvicina sempre più al suo profilo sinistro e poi inquadra il volto frontale in Primo Piano per fermarsi ancora più in là, in Dettaglio sul suo occhio destro. I secondi passano veloci su queste ultime parole: “Elzéar Bouffier morì serenamente nell’ospizio di Banon. Aveva 89 anni”, mentre la palpebra si chiude facendo entrare in dissolvenza incrociata un armonico turbinio di colori che poi si ferma dando spazio ai titoli di coda.
Non sappiamo, ovviamente, quale vita viva Elzéar Bouffier dopo la sua morte, ma, se non c’è Paradiso per il creatore di un Paradiso, non può esserci per nessun altro.
Neppure per i due umanissimi, simpaticissimi protagonisti di “The Big Snit” di Richard Condie, che neppure si accorgono di passare e miglior vita (ed è migliore, visto che si sono trasformati in angeli) dopo lo scoppio della guerra nucleare. Immersi nelle loro faccende domestiche e nel loro ménage sentimental-matrimoniale neanche se ne sono accorti: e infatti, nonostante abbiano aperto la porta di casa e abbiano visto il Paradiso di fronte a sé, nonostante tutti gli elementi del film siano diventati angeli con le ali (perfino i tasselli dello Scarabeo si fermano volando a indicare: hotel 10 km), nonostante questo si dicono che quella è una tipica giornata in cui non si ha voglia di far niente e che quindi è meglio tornare a casa a finire il gioco: lo Scarabeo, appunto.
La visione della vita dopo la morte è presente in molti film e in molti film, fortunatamente, si va in Paradiso. Accade per esempio in Anna & Bella di Borge Ring, Premio Oscar nel 1985. Ed accade come colpo di scena finale. Pensare che la prima inquadratura mostra una ragazza in bocca al diavolo: ma è solo una vignetta del fumetto che la piccola Anna sta leggendo dentro il bagno. Si tratta di uno di quei momenti che anticipano lo scatto di una foto (da parte della mamma). Sono infatti le foto a scandire i diversi momenti del film, quelle foto di un tempo che le due, ora invecchiate e ingrassate, guardano divertendosi un mondo, bevendo bicchieri di vino rosso e facendo partire i flash-back. Ancora una volta il passato, anche nei suoi momenti più tragici, si sdrammatizza dopo il trascorrere di anni purificatori. In questo caso, però, non sono solo gli anni della vita: Anna & Bella, lo sappiamo negli ultimi secondi, hanno le ali, sono angeli cui le vicende terrene fanno ridere a crepapelle con qualche lacrima di commozione. Ma sembrano felici, assolutamente felici, di aver abbandonato la valle di lacrime per un eterno pensionamento. La morte come eterna sdrammatizzazione della vita.
Meno rilassato è Charlie, il cane protagonista del lungometraggio di Don Bluth “All Dogs Go To Heaven”. Anche se ammesso in Paradiso, come tutti i cani, non ama l’idea di vivere lì dove tutto è tranquillo e previsto. Preferisce la vita, lui, e la possibilità di vendicarsi di Carface, il cane che l’ha mandato all’altro mondo con una trappola. Il momento della morte di Charlie, che va a finire in mare dentro un’automobile, è raffigurato come un passaggio attraverso tunnel luminosi, fino all’arrivo ai tradizionali cancelli del cielo.
Agli stessi cancelli arriva anche il gatto Tom, in un cortometraggio del ’49, “Heavenly Puss”. Dopo essere stato spiaccicato da un pianoforte nel tentativo di acchiappare il topo Jerry, davanti al suo sguardo un po’ intontito appare una scala mobile dorata che lo porta all’ingresso del Paradiso. Allo sportello delle informazioni verrà però a sapere che solo il perdono firmato da Jerry sarà buono per entrare; altrimenti lo aspetta il Diavolo con il suo pentolone bollente. E Satana lo avrà, perché la firma del topo è ottenuta a tempo scaduto. Che il Paradiso e l’Inferno siano solo frutto dei nostri sensi di colpa primordiali? Viene da pensarlo, perché alla fine tutta questa avventura risulta essere solo un brutto sogno.
Per la serie Morte come viaggio all’inferno è il caso di ricordare che anche Silvestro ha subito una sorte simile cinque anni più tardi. E’ morto anche lui nel tentativo di acciuffare Tweety e viene accolto da un bulldog satanico che mette Silvestro nella condizione di perdere non solo la sua prima vita, ma anche le altre otto che, proverbialmente, i gatti posseggono. Anche qui c’è una scala che scende verso gli inferi: ma la particolarità sta nel fatto che alla fine del cortometraggio, diretto da Friz Freleng e scritto da Warren Foster, il gatto perde anche la sua ultima vita, pur avendo deciso di rinunciare a Tweety. Insomma, non era affatto un sogno: Silvestro è davvero finito all’Inferno, ma un Inferno dal quale, evidentemente (anche se non ci dice come) si può tornare.
La leggenda delle nove vite del gatto è stata anche l’ottimo spunto per il finale di “The Cat Came Back” di Cordell Barker. Qui però la faccenda è diversa perché il pestifero gatto che distrugge tutto e torna sempre ci mette una sola vita per morire. Basta che il corpo del protagonista (la cui anima balla felice perché nel mondo dei morti pensa di non dover più subire le angherie del felino), basta che il corpo morto ricada a terra, per uccidere l’incontenibile felino e far nascere nove sue versioni formato aldilà. Se, come sembra, avranno entrambi la stessa destinazione, per la vittima protagonista anche il Paradiso sarà un inferno.
Tra le più rapide incursioni nell’Inferno, ma da vivo, da ricordare quella del protagonista di “Jumping” di Osamu Tezuka, attraverso i cui occhi vediamo il film senza nulla sapere di lui.
Poco più rapida la visita di Bart Simpson che, nel corso dell’episodio “Bart Gets Hit By A Car”, quando la sua anima di stacca dal corpo, dovrebbe finire in Paradiso, ma sulla scala mobile che lo porta su fino ai Cancelli del Cielo non rispetta gli ordini (impartiti anche in lingua spagnola, come si fa spesso nel sud degli Stati Uniti): insomma, non si appoggia al corrimano e sputa giù. Così viene inviato al Diavolo, in un inferno posto all’interno di un vulcano che è più o meno un quadro di Hieronimus Bosch. Satana controlla la sua scheda sul computer e vede che c’è un errore:
Devil: Il tuo arrivo non è previsto fino a quando la serie B salirà in serie A e la seria A scenderà in serie B (in originale: until the Yankees win the pennant. That’s nearly a century from now.) A questo punto si vedono i familiari di Bart affacciati sul vulcano che chiamano il suo nome.
Bart: Essere senti un po’… non posso fare niente per evitare di tornare qui?
Devil: Oh, certo, sì… ma non ti piacerebbe!
Bart: Oh, d’accordo. Allora… ci vediamo dopo!
Devil: Addio! Menti, imbroglia, ruba e ascolta musica metallara dura che brucia…
Bart: Sì capo… ciao!
Bart comincia a salire verso l’alto e piano piano raggiunge il suo corpo steso su un letto d’ospedale: lui può permettersi di non far vincere i suoi sensi di colpa ed essere d’accordo con chi preferisce il Paradiso per il clima e l’Inferno per la compagnia.
Anche Homer, in uno degli special horror, dei Simpson vende l’anima al diavolo per una ciambella, ma non ci sono elementi particolarmente interessanti per noi, anche perché, ad essere pignoli, Homer non muore davvero. E comunque tutte queste incursioni tra Inferno e Paradiso servono solo a mostrare i personaggi, come già li conosciamo, nei regni dell’aldilà, come noi li immaginiamo. Anche nei cartoon Paradiso e Inferno sembrano un ottimo strumento per sfuggire alla Morte.
Differente è l’approccio di Ishu Patel, che nel 1978 con “Afterlife” usò la plastilina colorata, distesa su un vetro opaco retroilluminato, per descrivere la vita dopo la fine della vita. Patel è indiano per nascita e cultura, ma ha vissuto in varie zone del mondo e lavorato per tanti anni in Canada e la sua visione dell’Aldilà si è potuta nutrire di impressioni e stimoli differenti.
Ma più che nei film sulle possibili forme dell’Aldilà, il rapporto degli uomini con la Morte viene esaminato nei film che descrivono l’attesa della stessa. La stessa attesa di cui parlò Akira Kurosawa nel suo Ikiru, di cui è protagonista un impiegato che viene a sapere di non aver speranze contro il cancro che l’ha colpito. Un film potente, intenso, che però Leonard Maltin definisce anche “awfully depressing”, terribilmente depressivo.
I cartoon con cui si conclude questa relazione cercano invece in tutti i modi di combattere la depressione, cercando di trovare l’energia vitale capace di sconfiggere anche la morte. “Why Me?”, di Janet Perlman e Derek Lamb (1978) ci racconta con un segno umoristico di un paziente cui il medico personale è costretto a fare una diagnosi terribile: ha nove minuti di vita, esattamente quanti ne durerà il film. Dopo le ovvie disperazioni e dopo i momenti distruttivi di rito, il protagonista esce dallo studio prima che sia scaduto del tutto il suo tempo, ormai preda di una vitalità e di una voglia di vivere che forse non aveva mai avuto prima.
Non sappiamo invece se è proprio la morte quella che aspetta i protagonisti del cortometraggio di Paul Driessen “Elbowing/Jeu de code”. Vediamo però che l’ultimo della fila di omini tutti uguali, che riceve una gomitata dal penultimo, cade giù in un burrone dal quale si presume non risalirà più. Un omino più colorato e fantasioso degli altri riesce a sfuggire al meccanismo e quindi a sottrarsi a un destino che pareva già segnato. Anche in questo caso la Morte viene sconfitta dal suo contrario: il movimento, il suono, il colore e la capacità di rompere gli schemi.
E concludiamo ancora con Homer Simpson, il quale, nell’episodio “One Fish, Two Fish, Blowfish, Blue Fish”, dopo aver mangiato in un ristorante giapponese un blowfish malservito, viene a sapere di non avere più a disposizione che ventiquattr’ore di vita. Homer non si agita poi mica tanto, e prepara una lista delle dieci cose da fare assolutamente prima di morire. Tra queste Fare la lista (ma c’è una linea sopra), Mangiare una vigorosa colazione, Avere un incontro da uomo a uomo con Bart, Far pace con Papà, Piantare un albero, Fare un’intimata (in originale : be intamit) con Margie.
Non riuscirà in tutto quello che si era proposto, ma andrà comunque tranquillo ad aspettare la fine ascoltando una cassetta audio con la lettura della Bibbia. Il sole lo sorprenderà vivo ma addormentato. Ma a proposito ancora della morte e di Homer, nel corso di un suo dialogo con Dio al termine di “Homer the Heretic”, il capofamiglia Simpson Gli chiederà quale sia il significato della vita.
God: “Homer, questo non te lo posso dire. Lo saprai quando morrai.”
Homer: “Non posso aspettare tanto a lungo!”
God: “Non puoi aspettare sei mesi?”
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