Nel dicembre del 43 a.C., uno degli episodi più drammatici della storia romana ebbe luogo, mettendo fine alla vita di un uomo che aveva influenzato profondamente la politica e la cultura della Repubblica. Marco Tullio Cicerone, oratore, filosofo e politico, venne ucciso dai sicari inviati da Marco Antonio, che lo considerava un pericolo per il suo regime. L’episodio, descritto con grande intensità da Plutarco, ci restituisce l’immagine di un uomo ormai rassegnato al suo destino, ma che non cessa di rappresentare un simbolo della lotta per la libertà e per la Repubblica.
«Cicerone li sentì arrivare e immediatamente ordinò ai servi di posare a terra la lettiga. Poi, appoggiando il mento sulla mano sinistra, come era solito fare, si mise a fissare i soldati che si avvicinavano. I suoi capelli erano arruffati, il volto era segnato dall’apprensione, e la sua espressione era tale che molti si coprirono gli occhi mentre Erennio lo colpiva. Fu ucciso mentre sporgeva il collo dalla lettiga, nel suo sessantaquattresimo anno di vita».
Immaginate la scena: Cicerone sta cercando di fuggire verso il mare di Formia, trasportato su una lettiga dai suoi servi. I suoi capelli arruffati, il volto segnato dall’apprensione e l’espressione preoccupata, sono i segni di una vita che si sta spegnendo, ma anche della consapevolezza di essere arrivato a un punto di non ritorno. Quando sente i passi dei sicari avvicinarsi, ordina ai suoi servi di fermarsi. Si appoggia con la mano sinistra sul mento, come faceva solitamente, e fissa i soldati che arrivano per prenderlo. Il momento della sua morte non è solo fisicamente violento, ma anche emotivamente carico, tanto che Plutarco racconta che molti dei presenti si coprirono gli occhi al momento del colpo fatale. Cicerone morì a sessantaquattro anni, colpito da Erennio, uno dei sicari, mentre sporgeva il collo dalla lettiga, come se volesse affrontare quel destino con la dignità di chi sa che la sua battaglia è giunta al termine.
Ma la crudeltà di quella morte non si fermò solo all’assassinio. Per volere di Marco Antonio, i sicari tagliarono la testa e le mani di Cicerone, quelle mani che avevano scritto le “Filippiche”, le sue orazioni più feroci contro Antonio, che gli costarono la vita. La testa e le mani vennero inviate a Roma, dove furono esposte pubblicamente sui rostri del Foro, un atto macabro che serviva a mettere in chiaro a tutti: chi sfida l’autorità dei triumviri, finisce come Cicerone.
Eppure, la storia di Cicerone non si esaurisce con la sua morte. Anzi, l’ironia del destino vuole che, sebbene fosse stato uno degli uomini più critici verso l’ascesa di Marco Antonio, Cicerone non venne mai completamente dimenticato. Molti anni dopo, l’imperatore Augusto – che aveva avuto una parte, seppur indiretta, nel suo omicidio – si trovò ad affrontare una situazione piuttosto singolare. Un giorno, sorprese suo nipote mentre leggeva un libro di Cicerone. Temendo di essere rimproverato, il ragazzo cercò di nascondere il libro, ma Augusto lo vide e, con un gesto che potrebbe sembrare quasi affettuoso, prese il testo e cominciò a leggerlo. Dopo un lungo silenzio, restituì il libro al nipote, dicendo: «Era un saggio, ragazzo mio, un saggio; e amava la patria». Un giudizio che, seppur di parte, rivela il rispetto che Cicerone riuscì a conquistarsi anche tra le mura di chi aveva fatto parte della sua tragedia. Augusto riconosceva in lui un uomo che, seppur nemico, aveva una grande visione per Roma e per il bene comune.
La morte di Cicerone, simbolo di una Roma che stava cambiando, dall’antica Repubblica verso l’Impero, ci racconta una storia fatta di politica, filosofia e lealtà alla patria. Le sue “Filippiche” non solo ci lasciano un legato oratorio straordinario, ma anche una lezione sul valore della libertà di pensiero e dell’opposizione al potere assoluto. Cicerone, nel suo ultimo respiro, rimase fedele a se stesso, sfidando l’autorità che alla fine lo aveva condannato. Eppure, anche dopo la morte, il suo spirito e le sue idee continuarono a riecheggiare, come se Roma non fosse mai riuscita a liberarsi completamente della sua figura.