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“La figlia del bosco”: l’esordio horror-eco-psicologico di Mattia Riccio è un incubo visivo che (nonostante i limiti) lascia il segno

C’è qualcosa di profondamente ancestrale nel perdersi nei boschi. Non è solo una paura primordiale, ma una vertigine esistenziale. È lì che Mattia Riccio ci conduce con il suo primo lungometraggio La figlia del bosco, disponibile su Prime Video dal 7 aprile e distribuito in Italia da The Film Club, ramo del gruppo Minerva Pictures. Un horror psicologico dai toni viscerali e visionari, capace di fondere l’estetica del dark fantasy con un’anima profondamente ambientalista. Un’opera prima che, pur traballando su alcune impalcature tecniche e narrative, riesce a toccare corde emotive e tematiche scomode, finendo per conquistare uno spettro di pubblico sorprendentemente ampio, dai ventenni fino agli over 70.

Riccio, classe 1993, dopo anni spesi fra cortometraggi, videoclip musicali e collaborazioni televisive con emittenti come La7 e Mediaset, sceglie di debuttare con un film che ha tutto il sapore della scommessa autoriale. Girato in appena due settimane tra le foreste del Monte Terminillo e del Monte Livata con una troupe under 30 e un budget ridotto, La figlia del bosco è un horror indipendente italiano che tenta di alzare l’asticella del cinema di genere nazionale, inserendosi nel filone internazionale dell’eco-vengeance – quello in cui la natura smette di essere sfondo e si fa giudice, carnefice e vendicatrice.

La storia ruota attorno a Bruno, interpretato da Davide Lo Coco, un cacciatore solitario che durante una battuta si perde in un bosco sconosciuto e ostile. Mentre la notte avanza, un canto inquietante lo guida verso una casa nascosta tra gli alberi. Lì incontrerà una ragazza enigmatica, incarnata da Giorgia Palmucci, e da quel momento l’incubo ha inizio. La natura diventa labirinto, trappola, teatro di visioni disturbanti e simboli arcani. A completare il cast, Giulia Malavasi e Angela Potenzano danno corpo e voce a figure chiave che amplificano la tensione crescente in questa fiaba nera dai contorni onirici.

Il bosco, qui, non è solo ambientazione: è personaggio vero e proprio. Un’entità viva, arcana e vendicativa che sembra riecheggiare il dolore del pianeta, in un crescendo visivo e sonoro che trasforma ogni fruscìo, ogni colore innaturale, in una minaccia latente. Ed è proprio in questo rapporto tra uomo e natura, tra colpa e punizione, che si gioca il cuore tematico del film. L’ambiente non è più lo sfondo neutro dei racconti gotici, ma l’anima ferita di un mondo che reclama giustizia. Non c’è un messaggio morale urlato, ma una tensione costante che suggerisce: se non ascoltiamo la natura, saremo divorati da essa.

Dal punto di vista tecnico, La figlia del bosco alterna momenti di ispirazione visiva – come i campi lunghi immersi in nebbie violacee e i contrasti cromatici notturni fra arancione e blu profondo – a scelte meno fortunate, come l’abuso di riprese con drone, che a tratti spezza l’intimità della narrazione. La fotografia, curata con attenzione quasi pittorica, riesce a evocare un senso di maestosità e pericolo, mentre la colonna sonora – fatta di suoni ambientali striscianti, violini stridenti e percussioni tribali – accompagna il protagonista (e lo spettatore) in una discesa verso l’inconscio, dove il reale e l’onirico si mescolano senza bussola.

Purtroppo, non tutto funziona. La sceneggiatura mostra segni di debolezza, con dialoghi a tratti forzati e un ritmo che, specie nella parte centrale, rischia di perdersi in lentezze che non sempre amplificano la tensione ma talvolta la smorzano. Alcune scelte di regia, pur coraggiose, risultano acerbe. Le interpretazioni, sebbene sincere, soffrono di una certa teatralità che rischia di compromettere l’immedesimazione. Ma è importante sottolineare che si tratta di un film indipendente, costruito con risorse minime ma con una visione ben chiara e un’urgenza espressiva che si fa sentire.

Ed è forse proprio questa urgenza – più del risultato finale – a colpire. In un panorama italiano che troppo spesso snobba il genere, La figlia del bosco tenta di scardinare i cliché e propone un horror che parla alle coscienze oltre che ai nervi. Non è solo una storia di paura, ma un’allegoria del nostro tempo. La solitudine del protagonista diventa metafora della distanza dell’uomo dalla natura. La vendetta del bosco è la resa dei conti di un mondo ignorato. Il canto che attira Bruno verso la casa è, in fondo, il richiamo a una verità che ci rifiutiamo di ascoltare.

Il successo ottenuto su Prime Video in poche settimane – con dati di visione che testimoniano un coinvolgimento trasversale – suggerisce che il pubblico è pronto per un horror che osa parlare anche d’altro. Vinians Production, che ha creduto nel progetto sin dall’inizio, rinnova così il proprio impegno a sostenere film che usano il genere per veicolare messaggi sociali forti, in un dialogo necessario con le nuove generazioni. Il film ha lasciato aperte molte domande, e già si vocifera di un possibile sequel. Sarebbe interessante vedere dove Mattia Riccio potrebbe portarci, ora che ha tracciato il suo sentiero nel bosco.

In definitiva, La figlia del bosco non è un horror perfetto, ma è un horror necessario. Un’opera prima che ha il coraggio di sporcare le mani, di inciampare e di risorgere, proprio come fa la natura. Per gli appassionati del cinema di genere, per i nerd del thriller psicologico e per chi crede ancora che il cinema possa essere anche una forma di attivismo, vale decisamente la pena perdersi in questo incubo verde.

Hai già visto il film? Ti sei lasciato sedurre dal canto del bosco?

Redazione

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