Nel far questo l’autore non si tira indietro di fronte alla difficoltà di restituire il contesto storico che ha ospitato questa forma di spettacolo, né si lascia spaventare dalle complessità di una forma di teatro che, ben prima che Wagner lo teorizzasse nella nota formula del Gesamtkunstwerk, fondeva insieme pittura (nella macchinerie teatrali cui son dedicati, nel libro, paragrafi gustosi), poesia (nella parola dei librettisti) e musica. Consapevole che il saggio ha bisogno dell’estetica oltre che della storia, Arruga affronta l’opera lirica in tutte le sue sfaccettature. Ci sorprende, nel libro, la lettura musicale che non è mai troppo dotta ed è sempre restituita sul filo di un entusiasmo che scavalca le difficoltà di chi di musica è davvero digiuno. Ci colpisce la visione sempre chiara della musica come “fatto teatrale” che esiste e respira solo sul palcoscenico e nel rapporto amorevolmente intessuto con un pubblico partecipe e coinvolto. Ci lascia ammirati l’amorevole cura profusa nella ricostruzione delle atmosfere, con la descrizione dei conservatori/colleggi settecenteschi con le stanze fitte di strumenti e voci stipate in disarmonici contrappunti, dei teatri a luci accese e dei cantanti che, con boria, si pensavano padroni della scena con le loro arie da baule.
La lettura corre ed avvince anche nei momenti in cui la fretta (necessaria a chi affronta in un libello quattro secoli di cultura e teatro) fa affastellare nomi ed eventi in una corsa contro il tempo che deriva dalla mancanza di spazio e non da quella di dottrina. Dove non può arrivare, comunque, Arruga allude, chiedendo sempre scusa ad un lettore che spera complice di una scorribanda libera e gioiosa. E questo ce lo rende amico e, quasi, compagno di strada. Qualche dubbio emerge nel tratteggio di singoli momenti. Non ci piace, ad esempio, che Dallapiccola sia liquidato quasi come incidente di percorso perché Il prigioniero ci pare, oggi più che ieri, esperienza di un teatro dell’anima che ricorda Seneca e forse anche un poco Monteverdi. Viceversa a Puccini, complice anche un filo di partigianeria che normalmente alberga nel cuore dei melomani, si perdona anche l’abbandono spudorato al sentimento in virtù di quell’orchestra che si spoglia d’ogni orpello avviandosi verso il Novecento più vero. Ci pare, poi, che si dica troppo poco dell’Häendel italiano a scapito di qualche nota di troppo sul Mozart più strettamente tedesco. Sul fronte dell’estetica e del pensiero musicale ci sorprende, infine, che così poco si sia detto sulla dottrina degli affetti che tanto spiega della musica barocca naturalmente incline al teatro anche quando cerca solo gli effetti fonici del concerto.
Ma sono questi peccati veniali, forse. Macchie di colore appena un poco esagerate su un bell’affresco altrimenti vasto e problematico. Per il resto il libro di Arruga avvince ed entusiasma, ma forse non arriva ancora a quel lettore di Youtube cui idealmente doveva e voleva rivolgersi. Lo spazio d’anni che separa Puccini da James Cameron è forse troppo vasto perché un libro riempia un vuoto che proprio il cinema che, del teatro d’opera e non solo, è stato per un secolo almeno il diretto discendente, ha riempito. È proprio il film, infatti, ad aver preso il posto, nell’immaginario collettivo, dello spettacolo d’opera ereditandone la funzione sociale. Di questo, forse, Arruga non parla mai abbastanza.
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