Il Mangianomi di Giovanni De Feo

Una terribile minaccia insidia il Ducato di Acquaviva (nel Regno di Napoli del Seicento): è il Mangianomi, una creatura misteriosa e inafferrabile che si aggira nel buio rubando a qualunque cosa il proprio nome. In breve tempo uomini, donne, bambini, animali, ma anche torri, foreste e paesi interi vengono ridotti a vuoti gusci irriconoscibili. L’unica speranza per gli abitanti del Ducato è rivolgersi a Magubalik, un giovane e solitario cacciatore dall’abilità leggendaria, perché sconfigga il temibile mostro. Ma il compito si rivelerà arduo persino per lui, e la caccia al Mangianomi si trasformerà da una pericolosa avventura a una discesa agli inferi, in un’odissea alla ricerca di se stesso. Ambientato in una terra popolata da foreste animate, capricciose eroine, fattucchiere, briganti, cantastorie e lupi gentiluomini, Il Mangianomi è un affascinante viaggio di formazione, epico e avventuroso, in cui amore e memoria illuminano un mondo afflitto da ombre e solitudine.

 

“Osservate bene le ombre della mia lanterna. Potrete scorgervi le sagome nere di tre cani, la figura intabarrata di un cacciatore, una ragazza addormentata in una torre, e più in là un’ombra orrenda che li sovrasta: è nera e inconoscibile, tutta occhi e zanne. Sono i semi della mia storia questi, presagi e visioni di quanto state per ascoltare. Se fate attenzione vi accorgerete di come le mie parole siano le ombre che la mia lanterna getta sulla parete. Ma come ogni ombra ha un corpo che la genera, così ogni parola è il ricordo di un oggetto o di una passione, ogni nome un grido lanciato in un pozzo: non appena lo si ascolta, suscita in noi un’eco”.

Giovanni De Feo è nato a Roma nel 1973. Dall’età di sei anni disegna mappe e sogna di imbarcarsi su un bastimento di pirati sulle coste del Tirreno. Si è invece laureato in Storia del Cinema. Lavora come sceneggiatore: tra i suoi lavori il film L’UOMO FIAMMIFERO, opera prima di Marco Chiarini, con Francesco Pannofino, definito il “caso cinematografico dell’anno”. Attualmente vive a Genova dove lavora come insegnante di italiano. Nel 2002 ha vinto il Premio Solinas per la miglior sceneggiatura. 

Da un intervista all’autore:

In realtà in Italia il fantastico si è sempre scritto: da Ariosto a Tarchetti, da Buzzati a Calvino, Ortese, Manganelli, per citarne solo pochi. Ma appunto nell’ultimo secolo è sempre stato un gioco di pochi, per pochi, gioco raffinato tra il gotico e il perturbante.La differenza è che in questi ultimi anni il fantastico anche da noi sta diventando fantasy. Cioè un tipo di narrativa popolare che tiene per bussola il romanzo epico-avventuroso di (recente) origine angosassone.Non più per pochi, ma per tanti, per tutti se possibile. E non più italiano ma astrattamente ‘norreno’. Forse è per questo che non mi piace la parola fantasy. Non per un’esigenza di purezza della lingua. Semplicemente è un termine che mi appartiene -talvolta- come lettore. Ma non mi appartiene e non mi apparterrà mai come scrivente. Per assurdo: scriverei davvero fantasy soltanto se narrassi in inglese partendo dai miti sassoni, non altrimenti.Mi spiego. Il signore degli Anelli nasceva dal desiderio di Tolkien di dare un’epica romanzesca alla terra che amava. E quando dico terra non intendo ‘nazione’; intendo proprio terra, fiume, bosco, radura, strada, villa. Dall’amore per il paesaggio, per le sue facce, e le sue lingue, e le radici di quelle lingue, nasce il ‘fantasy’ per eccellenza. Non il primo ovviamente, ma il modello più noto, quello più pervicace.Dunque: il Mangianomi non è un epica e nemmeno tenta di esserlo. Non c’è ‘cerca’. Non c’è compagnia. C’è battaglia senza che ci sia guerra. Tutto è a un livello umano, individuale, personale. Non c’è un universo da salvare. O meglio c’è, ma è un mondo intimo di ricordi, di identità personale. Il Nemico si scoprirà essere à un inganno, un tristo e bestiale mago di Oz che non conosce se stesso. Anzi, non c’è nemmeno quel “mondo secondario” che dovrebbe essere la conditio se ne qua non del fantasy. Il mondo in cui ambientato questo romanzo è il nostro scelleratissimo seicento, lo stesso di Manzoni, visto però attraverso le favole di Basile e di Calvino.Però lo stesso la storia nasce dall’amore per i paesaggi, e per la lingua che in quei paesaggi si parla, e per le storie che con quella lingua si raccontano.

> Ecco, col Mangianomi volevo raccontare le favole che avrei ascoltato trecento anni fa negli stessi camini nei quali mi sono scaldato da bambino.Volevo che la terra raccontasse la storia, la raccontasse attraverso i suoi casolari in rovina, i suoi orridi, le sue selve, i suoi fiumi, ancora prima che attraverso i suoi personaggi. In un certo senso è la stessa cosa che io e Marco Chiarini abbiamo fatto con “L’uomo fiammifero”.Volevamo che l’ambientazione facesse traspirare la storia da sè, magari in maniera disordinata, per accumulo: ma tenendo i piedi del racconto sempre ben ficcati nella terra, nella parlata locale, nelle facce dei paesi.Io e Marco credevamo e crediamo in questo paradosso. Che si può essere universali solo se nell’ambientazione si è precisi. E’ la genericità e l’astrattezza ad essere provinciale, non il contrario. E questo è vero anche nei generi. Per questo preferisco fantastico a fantasy. Giovanni De Feo

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