“Osservate bene le ombre della mia lanterna. Potrete scorgervi le sagome nere di tre cani, la figura intabarrata di un cacciatore, una ragazza addormentata in una torre, e più in là un’ombra orrenda che li sovrasta: è nera e inconoscibile, tutta occhi e zanne. Sono i semi della mia storia questi, presagi e visioni di quanto state per ascoltare. Se fate attenzione vi accorgerete di come le mie parole siano le ombre che la mia lanterna getta sulla parete. Ma come ogni ombra ha un corpo che la genera, così ogni parola è il ricordo di un oggetto o di una passione, ogni nome un grido lanciato in un pozzo: non appena lo si ascolta, suscita in noi un’eco”.
Giovanni De Feo è nato a Roma nel 1973. Dall’età di sei anni disegna mappe e sogna di imbarcarsi su un bastimento di pirati sulle coste del Tirreno. Si è invece laureato in Storia del Cinema. Lavora come sceneggiatore: tra i suoi lavori il film L’UOMO FIAMMIFERO, opera prima di Marco Chiarini, con Francesco Pannofino, definito il “caso cinematografico dell’anno”. Attualmente vive a Genova dove lavora come insegnante di italiano. Nel 2002 ha vinto il Premio Solinas per la miglior sceneggiatura.
Da un intervista all’autore:
In realtà in Italia il fantastico si è sempre scritto: da Ariosto a Tarchetti, da Buzzati a Calvino, Ortese, Manganelli, per citarne solo pochi. Ma appunto nell’ultimo secolo è sempre stato un gioco di pochi, per pochi, gioco raffinato tra il gotico e il perturbante.La differenza è che in questi ultimi anni il fantastico anche da noi sta diventando fantasy. Cioè un tipo di narrativa popolare che tiene per bussola il romanzo epico-avventuroso di (recente) origine angosassone.Non più per pochi, ma per tanti, per tutti se possibile. E non più italiano ma astrattamente ‘norreno’. Forse è per questo che non mi piace la parola fantasy. Non per un’esigenza di purezza della lingua. Semplicemente è un termine che mi appartiene -talvolta- come lettore. Ma non mi appartiene e non mi apparterrà mai come scrivente. Per assurdo: scriverei davvero fantasy soltanto se narrassi in inglese partendo dai miti sassoni, non altrimenti.Mi spiego. Il signore degli Anelli nasceva dal desiderio di Tolkien di dare un’epica romanzesca alla terra che amava. E quando dico terra non intendo ‘nazione’; intendo proprio terra, fiume, bosco, radura, strada, villa. Dall’amore per il paesaggio, per le sue facce, e le sue lingue, e le radici di quelle lingue, nasce il ‘fantasy’ per eccellenza. Non il primo ovviamente, ma il modello più noto, quello più pervicace.Dunque: il Mangianomi non è un epica e nemmeno tenta di esserlo. Non c’è ‘cerca’. Non c’è compagnia. C’è battaglia senza che ci sia guerra. Tutto è a un livello umano, individuale, personale. Non c’è un universo da salvare. O meglio c’è, ma è un mondo intimo di ricordi, di identità personale. Il Nemico si scoprirà essere à un inganno, un tristo e bestiale mago di Oz che non conosce se stesso. Anzi, non c’è nemmeno quel “mondo secondario” che dovrebbe essere la conditio se ne qua non del fantasy. Il mondo in cui ambientato questo romanzo è il nostro scelleratissimo seicento, lo stesso di Manzoni, visto però attraverso le favole di Basile e di Calvino.Però lo stesso la storia nasce dall’amore per i paesaggi, e per la lingua che in quei paesaggi si parla, e per le storie che con quella lingua si raccontano.