Può la creatività salvare un essere umano? A quanto pare sì. Walt Disney ne è l’esempio lampante. Nato da una famiglia povera, quarto di cinque figli, con un padre violento e una madre schiavizzata e passiva, è riuscito a venir fuori dalla tragicità della sua situazione grazie all’arte, arma che gli ha permesso di entrare in sintonia con se stesso e con gli altri. La massima espressione di tale prodigio è “Alice nel paese delle meraviglie” in cui viene illustrato un viaggio onirico dentro se stessi, contrapponendo il sogno, raffigurato con tinte forti e personaggi di contorno bizzarri, e la realtà, noiosa e deludente. Il tratto peculiare di Disney è la sua capacità di far sognare lo spettatore con storie riprodotte con schema, il più delle volte, quasi identico. C’è spesso una principessa a cui viene tolto il suo titolo. Il suo fine sarà riconquistarlo superando gli ostacoli posti dall’antagonista. Altra caratteristica è lo spessore dei personaggi secondari della favola, muniti di personalità ben definite. Sono loro che portano avanti la storia di cui i protagonisti sono solo spettatori passivi. Anche i “cattivi” denotano una forte carica psicologica che si manifesta con manie e fisse che finiscono per ritorcersi contro di loro destinandoli a morire come mai avrebbero sperato. Un esempio significativo è la strega di Biancaneve la quale, ossessionata dalla bellezza, finisce i suoi giorni da bruttissima vecchia.
L’ultima peculiarità Disney è l’utilizzo costante della musica da egli ritenuta strumento fondamentale per la formazione psicologica dei bambini. I film d’animazione sono nati, come anche i fumetti e il cinema, in un ambiente proletario. Spesso snobbati e oltraggiati, hanno acquistato funzione propagandistica con la seconda guerra mondiale divenendo prodotti anche per adulti. Soprattutto in America iniziano, in quel periodo, a occupare il posto che altri media avevano già e tentano la loro “operazione linguistica” pur essendo considerati ancora un prodotto per adolescenti (ma non più bambini). Negli anni sessanta il maestro della comunicazione McLuhan attribuisce ai fumetti e ai cartoni animati, la modalità di ”bassa definizione” ossia quella libertà lasciata al consumatore di rielaborare la scena, di immettere nel racconto tutto quello che manca e di stravolgere gli ambienti, i personaggi, le morali. Gli anni di McLuhan sono quelli, per la prima volta, riferiti non al momento della produzione, ma del consumo. Non ci si preoccupa più di cosa fanno i fumetti e i film d’animazione agli adolescenti, ma di cosa fanno gli adolescenti con questi prodotti di massa.
Negli anni novanta c’è stato un ulteriore “step” per quanto concerne il consumo del cinema per ragazzi: la computer grafica ha sostituito i metodi classici e la stop motion di “Nigthmare before Christmas” di Tim Burton, ha dato inizio alla nuova era dei film d’animazione. Ed ecco che Disney ritorna a perder colpi. C’era già stato, infatti, un periodo in cui aveva perso gran parte del suo successo in seguito ad un’innovazione nell’ambito delle sue storie; era però ritornato sui suoi passi nel 1989 con “La sirenetta”, dopo essersi reso conto della preferenza dei giovani per le classiche strutture delle sue favole. Ma è davvero migliorata la qualità dei film d’animazione? Forse. Posso solo dire che, per quanto mi riguarda, rimpiango il magico tocco Disney e quelle immagini che proiettavano sentimenti reali che permettevano quasi di percepire l’anima del disegnatore. In ogni colore, espressione dei personaggi ci si poteva rifugiare per immaginare i retroscena di quelle immagini perfette, molto più perfette di quella computerizzate tradite da una freddezza che non lascia emozioni reali al termine della proiezione e caratterizzate da un’omologazione dilagante che non permette di distinguere un’opera dalle altre. In questo caso, a mio avviso, la tecnologia, usata solitamente per spaziare con la fantasia permettendo di viaggiare virtualmente in mondi inventati, si rivela, paradossalmente, un ostacolo all’immaginazione. La produzione dei nuovi prodotti è così frenetica e volta esclusivamente al guadagno, che finisce per decretare la sconfitta della creatività.
La mia non è una denuncia nei confronti delle nuove frontiere tecnologiche ma un monito per la nostra civiltà. Ci sono ambiti, come quelli dell’arte, che non dovrebbero perdere la loro principale funzione, quella forse più importante: far sognare, toccare i sentimenti, coniare morali che siano d’insegnamento per gli spettatori. Ritengo fondamentali queste caratteristiche, tanto più che si tratta di bambini. Mi chiedo: se Walt Disney fosse nato ai giorni nostri avrebbe trovato ancora nella creatività un’ancora di salvezza?
VELIA IANNELLA