“Presto dovremo scegliere tra ciò che è giusto e ciò che è facile”: la frase che il professor Albus Silente pronuncia verso la fine del film “Harry Potter e il calice di fuoco” è emblematica. Non “sbagliato” dunque, ma “facile”. Una differenza importantissima. Insomma, non si tratta più di compiere delle scelte inequivocabili o di indossare le vesti dell’eroe senza paura per affrontare di volta in volta nemici immediatamente riconoscibili. No, questa volta è il tempo delle decisioni complesse, dalle sfumature e dagli esiti impossibili da decifrare. Non più, quindi, magie appariscenti (come il Patronus de Il prigioniero di Azkaban) o mostri minacciosi quanto buffi (basti pensare al troll de La pietra filosofale) o ancora comprimari affascinanti e divertenti (una su tutti, la famiglia Weasley).
Come tutte le favole, anche quella ideata da J. K. Rowling, e insieme con essa il suo protagonista, deve fare i conti con la tragedia che accompagna inevitabilmente il passaggio all’età adulta. Una tragedia chiamata insicurezza. Insicurezza per non saper distinguere con chiarezza gli amici dai nemici; insicurezza e sfiducia in se stessi per vedersi incapaci di controllare la propria stessa vita, facendosi travolgere da misteriosi eventi scatenati da altrettanto misteriosi ed invisibili avversari; insicurezza per il non poter fare affidamento sugli altri, incapaci di offrire, a differenza del passato, il loro fondamentale aiuto perché anch’essi incolpevolmente schiacciati dai dubbi e dall’impotenza. Il prigioniero di Azkaban aveva posto delle premesse importanti sotto questo aspetto. Il calice di fuoco sviluppa quelle premesse spingendole decisamente più in profondità (non a caso, se il terzo capitolo si concludeva con un finale che poteva dirsi lieto, nonostante permanessero alcune ombre, in questa quarta parte, alla fine, che chi ha letto il romanzo conosce benissimo, non c’è alcuna gioia e le uniche tracce di speranza sono vaghe e incerte).
Il percorso di maturazione di Harry (il non – più – ragazzino Daniel Radcliffe, cresciuto anche come attore) giunge, in questo episodio, ad una svolta. Innanzi tutto il giovane mago comincia ad accorgersi di alcune strane e pericolose creature che lo circondano. No, no niente a che vedere con avvincini, elfi o altri magici esseri. Si tratta delle ragazze, che sconvolgeranno il suo mondo e quello dei suoi amici (divertentissimi gli imbarazzanti e patetici tentativi suoi e di Ron di invitare Cho Chang e Fleur Delacour al Ballo del Ceppo). Inoltre, e qui non c’è più nulla da scherzare, egli dovrà fare i conti con il doloroso impatto con l’esperienza della morte (una scena straziante). Una mano oscura trama, infatti, alle sue spalle, costringendolo a partecipare al pericoloso Torneo Tremaghi, e lui si ritrova, per la prima volta, solo a dover fronteggiare i pericoli e le sfide che gli si parano davanti. Ron, il suo migliore amico (Rupert Grint, forse il più talentuoso dei giovani protagonisti), ce l’ha con lui perché convinto che la sua iscrizione al torneo sia dovuta al suo voler sempre essere al centro dell’attenzione e lo stesso Albus Silente, saggio preside di Hogwarts e, finora, guida infallibile per Harry e i suoi amici, si rivela incapace di superare i dubbi e le angosce connessi agli eventi in corso.
Il poliedrico Mike Newell, uno dei pochi director capaci di maneggiare con estrema cura i registri più diversi, passando con grande efficacia dalla commedia sentimentale (Quattro matrimoni e un funerale) al poliziesco (Donnie Brasco), si conferma una scelta azzeccata sotto tutti i punti di vista. Grazie alla sua dimestichezza nell’affrontare differenti generi cinematografici, il regista inglese riesce a mettere in scena una complessa trama da film thriller, assestando nei momenti giusti i vari colpi di scena che affollano il libro di J. K. Rowling e inserendo ad hoc le sottotrame più “leggere” così da spezzare l’atmosfera decisamente dark dell’intero film. Inoltre la maturazione professionale dei tre attori principali (tra i quali è doveroso segnalare Emma Watson, giovane donna sempre più affascinante) gli consente di esplorare in modo più diretto rispetto ai film precedenti (come richiesto dalla storia narrata in questo capitolo, del resto) determinate emozioni. Una menzione speciale meritano, inoltre, due nuovi arrivati nel cast: Brendan Gleeson nella parte di Alastor “Malocchio” Moody, nevrotico e anarchico professore di Difesa contro le Arti Oscure, e Miranda Richardson, l’odiosa cacciatrice di scoop Rita Skeeter. Due interpreti straordinari, bravissimi nel rendere, in un esiguo numero di scene, l’ambigua eccentricità dei loro personaggi.
Harry Potter e il calice di fuoco rende evidente l’intento che la sua autrice intende perseguire fin da La pietra filosofale: scrivere una favola che non sia solo per bambini. Scrivere, al contrario, una favola per impedire ai bambini di tutte le età di “crescere troppo”, abbracciando il cinismo e il disincanto della nostra società contemporanea. Molti critici, letterari e cinematografici, si sono scagliati contro la saga di J. K. Rowling, e contro Il calice di fuoco in particolare, perché contenente, a loro modo di vedere, troppi stereotipi e luoghi comuni (soprattutto riguardanti il mondo adolescenziale). Ma, in fondo, cosa volete che ne capiscano? Sono soltanto dei babbani…
Pier Carlo Fabi
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