Il tema della guerra è sempre stato presente nelle nostre menti, anche se spesso in modo distaccato, come qualcosa di lontano e astratto, spesso relegato a scenari virtuali. Noi nerd, abituati a crescere con videogiochi come Call of Duty e altri titoli di guerra, siamo stati immersi in ambienti dove la strategia, il combattimento e la sopravvivenza sono al centro dell’azione. Ore e ore passate a perfezionare il nostro tiro, a coordinare le mosse con i nostri compagni di squadra, ci hanno sicuramente fatto sentire più preparati. Tuttavia, mentre ci alleniamo a combattere in scenari virtuali, un’altra guerra potrebbe bussare alla porta del nostro mondo reale. La crescente tensione internazionale, la politica di riarmo in Europa e le dichiarazioni di figure politiche come la presidente della Commissione europea Ursula von der Leyen, che ha dichiarato: «Se l’Europa vuole evitare la guerra, deve prepararsi alla guerra», ci pongono di fronte a un futuro che non possiamo ignorare.
Da un lato, è innegabile che i videogiochi di guerra ci abbiano fornito una sorta di allenamento strategico. Call of Duty, ad esempio, ci insegna a pianificare attacchi, a muoverci con precisione, a anticipare le mosse dell’avversario. La pressione, la rapidità nel prendere decisioni e la cooperazione con i nostri compagni di squadra sono abilità che i giochi ci impongono di affinare. In qualche modo, ci siamo preparati a reagire velocemente, a prendere decisioni sotto stress, a fare multitasking. Inoltre, in giochi come questi, la comunicazione e la fiducia reciproca sono essenziali per vincere. A livello mentale, tutto ciò ci rende più pronti ad affrontare situazioni di complessità, ad adattarci rapidamente, a reagire con prontezza e lucidità.
Dall’altro lato, però, la realtà è ben diversa. I videogiochi, per quanto possano sembrare realistici, sono ambienti altamente semplificati.
Le azioni hanno un feedback immediato e, soprattutto, senza conseguenze reali. La violenza nei giochi è una simulazione, una rappresentazione che non ha nulla a che vedere con la brutalità e le implicazioni morali di un conflitto vero. Nei videogiochi non dobbiamo fare i conti con il dolore, con la paura, con il trauma psicologico che una guerra vera comporta. La sopravvivenza nei giochi si limita a un obiettivo finale, ma la guerra reale comporta una costante e pesante riflessione etica. In guerra, non esistono “respawn” e le cicatrici, fisiche e psicologiche, rimangono.
Con il riarmo dell’Europa e l’intensificarsi delle tensioni internazionali, un’altra domanda si affaccia: siamo davvero preparati ad affrontare una guerra? La domanda è tanto più pertinente oggi, dato che la politica della difesa in Europa sta cambiando. In caso di conflitto, oltre ai militari di professione, chi verrebbe richiamato? Le donne, per esempio, potrebbero essere chiamate alle armi? E chi, invece, sarebbe esonerato?
Nel nostro paese, la legge 23 agosto 2004, n. 226 ha sospeso la leva obbligatoria, ma non l’ha eliminata. Questo significa che, in caso di guerra o grave crisi internazionale, la leva potrebbe essere reintrodotta. In una simile eventualità, i militari in servizio permanente e gli ex militari che hanno lasciato le Forze Armate da meno di cinque anni sarebbero i primi ad essere richiamati. Solo in un secondo momento, i civili sarebbero chiamati, ma solo in caso di estrema necessità. Se dovesse riprendere la leva obbligatoria, ciò comporterebbe la costituzione di Consigli di leva, incaricati di gestire le operazioni di arruolamento, con l’intervento del Ministro della Difesa che fisserà annualmente il contingente necessario.
Un aspetto cruciale riguarda la partecipazione delle donne: oggi, pur avendo accesso al servizio militare volontario, la leva obbligatoria rimane un’esclusiva maschile. In futuro, in caso di riattivazione della leva, le cose potrebbero cambiare, anche grazie a un aggiornamento delle normative. Inoltre, non tutti sarebbero chiamati a servire. Esistono esoneri per chi non possiede i requisiti fisici o morali necessari, per coloro che sono affetti da malattie invalidanti o per chi ha carichi familiari particolari, come figli a carico o genitori non autosufficienti.
Le domande non si fermano qui: qual è l’età massima per essere richiamati? Fino ai 45 anni, chi è in lista di leva è chiamato a servizio, ma ciò potrebbe cambiare, dato che la normativa attuale non è in linea con l’aspettativa di vita odierna. Chi, quindi, verrebbe chiamato? Molti civili andrebbero a rafforzare l’Esercito, ma la Marina e l’Aeronautica potrebbero richiamare personale specializzato, come marittimi o persone con competenze aeronautiche. Il grado sarebbe determinato in base al servizio prestato, con una possibile promozione per i militari di truppa che rispondano alla chiamata. In caso di conflitto, l’Europa potrebbe trovarsi a fare i conti con un sistema di mobilitazione che potrebbe coinvolgere milioni di civili. La guerra, però, non è mai un gioco, e la preparazione che possiamo avere nei giochi non basta a prepararci alla durezza della realtà.
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