In un discorso tenuto ad inizio anno, Yukio Hatoyama, attuale Primo Ministro del Giappone, aveva indicato fra gli obiettivi prioritari del suo governo «… proteggere la vita della gente, di quelli che sono nati, di quelli che crescono e di quelli che diventano adulti», sollevando il velo su uno dei più gravi problemi del Giappone, circondato da un riserbo forse più che naturale ma che, a causa delle sue dimensioni, è oramai diventato un vero e proprio dramma sociale: i suicidi. Silvio Piersanti, giornalista italiano di grande esperienza internazionale che vive a Tokyo ed è sposato con una scrittrice giapponese, ha realizzato un’interessante inchiesta pubblicata lo scorso 2 aprile su Il Venerdì di Repubblica, inserto settimanale del quotidiano La Repubblica ripreso e pubblicato in questi giorni da Animeclick
Giappone: il Governo va alla Guerra dei Suicidi nel Paese che divora i suoi figli
di Silvio Piersanti
I Giapponesi pensavano di vivere nell’Eden. Ora è stato detto loro che vivono nell’inferno. Secondo dati statistici resi noti dall’autorita centrale di polizia, da dodici anni, ogni anno, si suicidano oltre 30 mila giapponesi. Ma autorevoli fonti, tra cui il vescovo cattolico di Tokyo Paul Kazuhiro, affermano che quei numeri, già di per sé agghiaccianti, danno un quadro parziale della disperazione che pervade larghi strati della società giapponese.
In realtà, sostengono, i suicidi sono oltre 60 mila ogni anno.
Dunque, ogni otto minuti almeno un giapponese si toglie la vita. E bisognerebbe aggiungere i tentativi di suicidio, dodici volte tanti, e quelli di coloro che ci stanno pensando.
Per il Paese è stato uno shock, un colpo che ha scosso le fondamenta dell’orgoglio nazionale, lasciando tutti increduli e incapaci di darsi una risposta, una spiegazione plausibile. Dov’è finito il popolo che ha stupefatto il mondo con la sua ripresa economica e sociale, con il suo irrefrenabile ottimismo, con la sua inesauribile energia, ripartendo da zero dopo la sconfitta sancita dalle bombe atomiche americane?
Il primo ministro Yukio Hatoyama, il capo della coalizione di centro-sinistra subentrata al governo dopo decenni di monopolio del centro-destra, ha dato al problema la massima priorità: ha creato una task force per combattere il fenomeno, ha stanziato fondi per assegnare alle agenzie di collocamento migliaia di psicologi specializzati nell’affrontare depressioni causate da disoccupazione e fallimenti, ha portato da 800 a 230 mila gli alloggi e la distribuzione temporanea di cibo per i senzatetto nelle due settimane di festività di fine anno, quando si registrano i picchi massimi di suicidi, ha istituito un telefono amico, ha predisposto tirocini psicologici per associazioni di volontari.
Ma in questi primi mesi non si sono ottenuti risultati confortanti: il numero di persone che rinuncia alla vita continua a crescere. Quanto il problema sia impellente lo si è capito dalle parole con cui Hatoyama ha aperto il suo discorso di inizio anno alla nazione: «Voglio proteggere la vita della gente, di quelli che sono nati, di quelli che crescono e di quelli che diventano adulti».
Gli adulti sono i più numerosi a dire “basta”: un terzo dei suicidi è nella fascia di eta tra i 20 e i 49 anni, uomini e donne (più i primi, però) nel pieno della vita che non vedono più nel presente e nel futuro una ragione per continuare a viverla.
Poi vengono “quelli che crescono”, gli studenti: nel 2009, ogni giorno dell’anno scolastico almeno due alunni delle elementari o medie si sono uccisi, stroncati da un sistema che seleziona i migliori in base a una spietata competitività, creando un terreno fertile per varie forme di bullismo.
In Giappone, se non frequenti le scuole giuste sin dall’inizio sei condannato a un futuro di cittadino di serie B. Molte famiglie si indebitano per pagare i corsi di ammissione agli istituti scolastici e alle università più ambite. I migliori insegnanti lavorano a tempo pieno in quei corsi. Le lezioni possono costare l’equivalente di centinaia di euro l’ora. Una bocciatura, in questo contesto, si trasforma in una tragedia familiare e lo studente se ne sente responsabile, «con sensi di colpa che possono sfociare in depressione e suicidio», afferma una professoressa di Osaka. «Se non si può includere nel curriculum un percorso scolastico che testimoni la frequentazione di scuole e Università prestigiose» – spiega – «è inutile mirare a posti di responsabilità. Sono stata spesso in Europa. Conosco lo spensierato disordine in cui vivete. Da voi la vita è scomoda ma allegra. Da noi è l’opposto. In Giappone i cani non abbaiano, i bambini non frignano, i genitori non litigano, gli automobilisti non insultano, i negozi non chiudono mai,treni e aerei sono puntuali, i servizi funzionano alla perfezione. Questo meccanismo oliato è il risultato di un sistema educativo rigidissimo, che forma cittadini ligi al dovere sino alla paranoia. Ora ci presentano il conto da pagare per vivere nell’ordine: il numero dei suicidi».
In un recente dibattito televisivo con tre giovani donne che negli anni del liceo avevano tentato di togliersi la vita, la 26enne Shinohara Eiji ha raccontato di essere arrivata a quella decisione esasperata dopo aver subito per anni umilianti commenti circa il suo sovrappeso da parte di alcuni compagni di classe. Rivelatore l’incontro con il padre, al ritorno dall’ospedale. «Mi ha accolto a braccia aperte. Mi ha stretto a sé. Ha poggiato il capo sul suo petto. Non ci siamo detti una parola. Era la prima volta in tutta la mia vita che ricevevo un abbraccio da mio padre».
Le tre giovani donne hanno poi aggiunto che per resistere alla vertigine del suicidio sarebbe stato sufficiente sentire un po’ di calore umano in famiglia.
Al primo Ministro Hatoyama va comunque il merito di aver fatto capire al Paese che i suicidi sono una piaga con cui governo e popolo devono confrontarsi. È la prima volta nella storia millenaria del Giappone.
Fino ad ora il suicidio era una disgrazia privata su cui la dignità imponeva di tacere. Ora il bubbone è scoppiato e la piaga è al centro di accesi e preoccupati dibattiti. Si cerca di capire non tanto le ragioni che spingono tanti individui a rinunciare alla vita: delusioni d’amore, depressioni, fallimenti commerciali, malattie, ma perché tanti giapponesi, davanti alle difficoltà della vita, giungono con apparente facilità alla decisione di togliersi la vita.
Sociologi e storici rilevano che il suicidio è sempre stato un elemento importante della cultura giapponese, fin dai tempi del mondo dei Samurai…
Per i Samurai il seppuku o harakiri (come è più noto in Occidente), il suicidio compiuto affondando la lama nel ventre con un movimento da sinistra a destra e poi in alto, era l’unico modo per cancellare un’umiliazione.
Lo si compiva con solennità rituale, indossando un kimono da cerimonia e stando in ginocchio, seduti sui talloni, con gli alluci sovrapposti, perché il corpo senza vita potesse riversarsi solo in avanti, come un guerriero cade solo in combattimento. Il più abile aiutante del samurai aveva il compito di completare il rito, decapitandolo con un deciso colpo di katana per impedire che il dolore deformasse il volto del samurai.
Anche nel suicidio, come in ogni atto della vita dei giapponesi, dai riti religiosi alla disposizione dei fiori (ikebana), alla cerimonia del tè, l’aspetto estetico ha valenza almeno quanto l’atto in sé.
Questo spirito di stoicismo estremo è stato ereditato dai giovani piloti kamikaze apparsi nell’ultimo conflitto mondiale. Fra i più spettacolari seppuku moderni quello dello scrittore Yukio Mishima, scrittore e drammaturgo che, con il suo fedele seguace Murakatzu Morita, il 25 novembre 1970, davanti centinaia di telecamere e migliaia di soldati inviati dal Governo per fermarlo, si è suicidato nel Ministero dell’Interno nipponico che Mishima e un gruppo di suoi fedeli avevano occupato per protesta contro la decisione del Governo stesso di rinunciare al proprio esercito e affidare la difesa della nazione alle forze armate USA.
Il vescovo Mori, il nunzio apostolico in Giappone arcivescovo Alberto Bottari de Castello e il pastore protestante di Tokyo, Rev. Samuel Koji Arai, non hanno dubbi: la pulsione suicida è dovuta alla mancanza di un dio unico con cui dialogare, a cui chiedere perdono e amore.
I suicidi sono il risultato di una società atea che non vede traguardi oltre il benessere materiale. Quando questo viene a mancare, non resta che il buio della disperazione.
Il Giapponese non ha la cultura individuale che è al centro della civilta occidentale. Si identifica con la scuola che frequenta, con la famiglia, con la ditta in cui lavora, con il suo lavoro, con il suo popolo. Se sbaglia è davanti a loro che deve giustificarsi. Nessun dio viene chiamato in causa. Togliersi la vita non è peccato. È forse il modo più nobile per uscire da una situazione umiliante.
Agli uomini di chiesa occidentali ribatte la scrittrice Kyoko Asada: «Non capirete mai l’anima giapponese finché continuerete a volerla colonizzare. Da Millenni vi arrogate il diritto di stabilire quale sia il vero dio e quale sia il falso, cosa sia il bello e il brutto, cosa sia giusto o sbagliato. Vivere senza il senso del peccato è meglio che tormentarsi nei rimorsi, temendo il fuoco eterno dell’inferno. Lasciateci fare della nostra vita quel che vogliamo».
«Per molti» – afferma infine la traduttrice di narrativa italiana Hiroko Nakamura – «il passo estremo è reso più facile dalla fede nel principio buddista della reincarnazione, che concede una possibilità di riscatto per riprendere il cammino esistenza dopo esistenza, sino al Nirvana o eterna beatitudine divina». Per i buddisti, individui straordinari come Buddha, Cristo, Francesco D’Assisi, Gandhi, madre Teresa sono conosciuti nella loro ultima esistenza, prima di abbandonare l’ormai inutile involucro corporeo e divenire puro spirito.
Per l’occidentale che vive in Giappone, l’impressione è che i giapponesi – che hanno due religioni ufficiali, buddismo e scintoismo, templi meravigliosi, una filosofia spirituale che spazia da Confucio allo Zen, milioni di dei – più che di un dio manchino di concetti umani come il perdono, la tolleranza, la compassione, in una parola l’amore. Qui chi sbaglia sa che deve pagare e nulla potrà evitargli il duro castigo. Per questo accade spesso che qualcuno all’alba lasci un biglietto di congedo, faccia un inchino verso la famiglia dormiente ed esca in silenzio, avviandosi verso la metropolitana da cui scenderà per l’ultima volta. Pochi minuti dopo,nelle stazioni di quella linea apparirà un segnale luminoso che annuncia un ritardo a causa di un ginshinjico, un “incidente con una persona”, l’eufemistica formula che indica il suicidio di qualcuno che si è lanciato sui binari.
Il ritardo non sarà lungo: il corpo viene rapidamente portato via, i moduli della polizia velocemente riempiti. E la circolazione riprende, frenetica ed efficiente, come sempre
Grazie a Domenico mitico Debris per la nota
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