Cure, è un film che ha definito non solo un’epoca del J-Horror, ma anche la carriera di un regista straordinario come Kiyoshi Kurosawa. Questo thriller psicologico uscito nel lontano 1997, con la sua recente riedizione in 4K dal 3 aprile 2025 nei cinema italiani, ci offre un’opportunità unica per rivisitare un classico che non ha mai smesso di inquietare e affascinare il pubblico, anche a distanza di decenni dalla sua uscita. In Cure, Kurosawa mescola abilmente l’indagine poliziesca con un’atmosfera surreale e onirica, creando un’opera che non è solo un film di genere, ma un’esplorazione profonda della fragilità della psiche umana.
La storia si sviluppa a Tokyo, in un contesto metropolitano denso e opprimente, dove il detective Ken’ichi Takabe, interpretato in modo impeccabile da Kōji Yakusho, è chiamato a risolvere una serie di omicidi misteriosi. Le vittime sembrano comuni, le loro morti inspiegabili, eppure c’è un filo rosso che le lega: un’incisione a forma di X sul collo, lasciata da chi le ha uccise, senza alcun movente apparente. Il caso conduce Takabe a Kunihiko Mamiya (Masato Hagiwara), un giovane enigmatico che soffre di amnesia, ma che esercita un’influenza ipnotica su chiunque lo incontri. La trama, pur partendo da una premessa da thriller investigativo, si trasforma ben presto in un’esplorazione di territori più oscuri e sottili. Il confine tra il razionale e l’irrazionale diventa sempre più sfumato, e la mente del detective si perde nell’analisi di un caso che sembra sfuggire ad ogni logica.
Kurosawa crea un equilibrio perfetto tra l’indagine e l’elemento sovrannaturale, portando lo spettatore a riflettere sul potere dell’inconscio e sull’influenza che la mente umana può esercitare sugli altri. Mentre Takabe cerca di afferrare una verità che sembra allontanarsi sempre più, la spirale di violenza e manipolazione si fa sempre più opprimente.
Lo stile inconfondibile di Kurosawa
La forza di Cure risiede nella maestria con cui Kurosawa costruisce la tensione, distaccandosi dai canoni tipici dei thriller occidentali. Non ci sono inseguimenti frenetici, né colpi di scena urlati. Al contrario, l’atmosfera è densa, pesante, e la paura è generata dal vuoto tanto quanto dai suoni inquietanti e dalle immagini inquietanti che popolano lo schermo. I lunghi piani sequenza, che si muovono lentamente attraverso paesaggi urbani desolati o stanze vuote, amplificano il senso di spaesamento. La scelta di una colonna sonora minimalista, che lascia ampio spazio ai rumori ambientali – il vento, il traffico distante, il fruscio dell’acqua – crea una sensazione di solitudine e di desolazione che accompagna lo spettatore per tutta la durata del film. Ogni suono sembra potenziale portatore di un messaggio, ma allo stesso tempo è esso stesso un enigma.
Kurosawa ci invita a fare esperienza della tensione attraverso l’ambiente, non tramite i dialoghi o la musica, ma lasciando che l’ambientazione e il silenzio diventino i veri protagonisti. L’inquietudine non è mai esplicita, ma si annida nell’aria, tra le pieghe di ogni scena. In questo, Cure si rivela una perfetta metafora della mente umana, che non sempre è chiara e comprensibile, ma nasconde segreti che emergono solo quando meno ce lo si aspetta.
L’eredità del J-Horror
Pur non rientrando in senso stretto nel genere horror, Cure è una delle opere fondanti del J-Horror, un filone che sarebbe esploso di lì a poco con film come Ringu di Hideo Nakata. Se in quest’ultimo il terrore si manifesta attraverso un oggetto maledetto, in Cure è l’ipnosi, un meccanismo mentale sottile, a scatenare il caos. Mamiya non è un fantasma né una presenza spettrale in senso tradizionale, ma è altrettanto minaccioso. La sua influenza ipnotica ha il potere di spingere le persone a compiere atti di violenza, come se fosse lui il veicolo di un male che esiste solo nella mente di chi lo subisce.
L’inquietudine che Cure suscita è alimentata proprio dalla sensazione che il male non sia qualcosa di tangibile, ma che si annidi nelle menti degli individui, in quel fragile confine tra razionale e irrazionale che separa l’uomo dalla follia. Questo male impalpabile, che pervade tutto il film, non è mai davvero spiegato, ma si insinuano in esso le paure collettive della società giapponese di quegli anni: l’incapacità di controllare la propria mente, l’alienazione, l’insensatezza della violenza.
Un finale enigmatico che lascia il segno
Uno degli aspetti più affascinanti di Cure è il suo finale ambiguo, che non offre risposte facili, ma lascia lo spettatore con un senso di frustrazione e smarrimento. La struttura del film è circolare: Takabe vive una serie di eventi che sembrano ripetersi, come un incubo dal quale è impossibile svegliarsi. La ripetizione e la ciclicità degli eventi suggeriscono che il destino non sia mai veramente sfuggito al controllo, ma che si ripeta, inesorabile. Alla fine, l’ultima sequenza, volutamente enigmatica, ci lascia con il dubbio: la spirale di omicidi è davvero finita o è solo l’inizio di un nuovo ciclo? Takabe è forse diventato una parte integrante di quel meccanismo, un burattino che non può più sfuggire dalla sua prigione mentale?
In Cure, Kurosawa ci porta in un viaggio oscuro e psicologico che è molto più di un semplice thriller. È una riflessione sul potere della mente e sul fragile equilibrio che regola la nostra percezione della realtà. Ogni scena è un’indagine nell’inconscio, un’analisi della paura e della solitudine che accompagnano l’essere umano in una società sempre più alienante. Anche a distanza di anni, Cure rimane una delle pellicole più inquietanti e affascinanti del cinema giapponese, una prova del genio di Kiyoshi Kurosawa e della sua capacità di trascendere il genere per raccontare la complessità della condizione umana.
Con la sua riedizione in 4K, Cure non è solo un film da vedere, ma un’esperienza da vivere, immergendosi in un’atmosfera unica che rimarrà a lungo nella mente dello spettatore. Un’opera senza tempo, che ancora oggi dimostra di avere molto da dire.
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