Ci sono storie che crescono con noi. Non invecchiano, non sbiadiscono, non spariscono nel flusso del tempo. Semplicemente, si sedimentano, diventano parte del nostro DNA emotivo. Candy Candy è una di quelle storie. Anzi, è la storia. E oggi che festeggia il suo cinquantesimo compleanno, ci viene naturale fermarci un attimo, chiudere gli occhi e tornare lì, su quel divano degli anni ’80, con i piedi a penzoloni, la merenda in mano, e la TV a tubo catodico che trasmette le prime note di quella sigla che non ci ha mai lasciato: “Candy, Candy…”. Sì, sono passati cinquant’anni. Mezzo secolo da quando Candy Candy ha visto la luce, nel 1975, sulle pagine della rivista giapponese Nakayoshi – lo stesso santuario editoriale che anni dopo avrebbe partorito Sailor Moon. Ma prima ancora delle guerriere con le minigonne e dei gatti parlanti, ci fu lei: una ragazzina bionda, con le lentiggini, il cuore enorme e una forza che ti spiazzava più di qualsiasi colpo magico.
Candy non era una maghetta. Niente poteri, niente incantesimi, niente creature mistiche. La sua magia era un’altra: quella di riuscire a farci ridere con gli occhi pieni di lacrime. Il manga creato da Kyoko Mizuki (alla sceneggiatura) e Yumiko Igarashi (ai disegni) fu un autentico terremoto emotivo. Un’opera shōjo che non si limitava a raccontare la crescita di una bambina diventata orfana, ma che ci trascinava in un vero e proprio romanzo di formazione, con tanto di drammi, amori impossibili, lutti, tradimenti e piccoli raggi di sole. Candy cresceva, cadeva, si rialzava, e ogni volta ci portava con sé. E noi imparavamo, spesso senza accorgercene, cosa significasse davvero essere forti.
Il manga si articolava in nove volumi, ma fu anche trasposto in un romanzo, scritto dalla stessa Mizuki nel 1978. In queste pagine, Candy attraversava continenti e sentimenti, si innamorava perdutamente del gentile Anthony, viveva l’amore tormentato con Terence, il ribelle dal cuore spezzato, e si perdeva nel mistero del Principe della Collina. E poi c’era Albert, vagabondo misterioso con una verità sorprendente, e la figura enigmatica del benefattore A.A., che si sarebbe rivelata fondamentale per tutta la narrazione.
Quando Candy arrivò in Italia: il 2 marzo 1980 nacque un’epoca
Ma è il 2 marzo 1980 la data che, per noi italiani, segna l’inizio del mito. Quel giorno, Candy Candy non apparve in edicola, ma nelle nostre case, direttamente sul piccolo schermo, prima ancora delle grandi reti nazionali. Fu un’esplosione. La voce della giovane Cristina D’Avena, le musiche struggenti, i paesaggi malinconici, e quella protagonista così… umana. Era impossibile non affezionarsi. Impossibile non seguirla nelle sue mille peripezie, tra collegi spietati, famiglie nobili e segreti da romanzo vittoriano. Non era solo una “cosa da femmine”, come dicevano certi adulti all’epoca. Candy parlava a tutti. Anche a quei bambini cresciuti a pane e Goldrake. Perché il dolore, la perdita, la speranza, la ricerca di un senso nel caos della vita… sono emozioni universali. E Candy, con la sua voce flebile ma determinata, ce le gridava sottovoce.
L’anime, prodotto da Toei Animation, andò in onda in Giappone dal 1976 al 1979, per un totale di 115 episodi. In Italia diventò subito un cult, replicato fino allo sfinimento, trasformato in album di figurine, bambole, t-shirt, cancelleria e, ovviamente, in quelle sigle che ancora oggi canticchiamo senza pensarci. E se il manga aveva il merito di raccontare la storia con profondità e pathos, l’anime le diede carne e movimento, espandendone alcuni snodi narrativi, introducendo variazioni e – con l’OAV del 1992 – persino tentando di dare una chiusura più chiara alla tormentata vicenda.
Una lezione di vita lunga 50 anni
Candy Candy, con la sua semplicità e la sua dolcezza, ha anticipato temi che oggi ci sembrano imprescindibili: l’abbandono e l’affido, l’emancipazione femminile, le disuguaglianze sociali, la libertà di scegliere la propria strada anche a costo di rinunciare all’amore romantico. Era una vera pioniera. Una che, a differenza delle eroine moderne armate fino ai denti, combatteva con la gentilezza, la testardaggine e un’empatia fuori dal comune. Il suo messaggio era chiaro: si può cadere mille volte, ma non si smette mai di sperare. E anche quando il mondo sembra averti voltato le spalle, anche quando perdi le persone che ami, anche quando tutto sembra perduto, c’è sempre un modo per ricominciare. Candy lo faceva in ogni episodio. Con le lacrime agli occhi, sì, ma anche con un sorriso che spuntava timido tra le nuvole.
Oggi, a cinquant’anni esatti dalla sua prima apparizione, Candy Candy è più viva che mai. Mostre, eventi celebrativi, gadget retrò, ristampe, cosplay, fanfiction: il suo universo continua a vivere, evolversi e toccare nuove generazioni. È diventata un’icona transgenerazionale, capace di parlare ancora a chi si affaccia oggi al mondo degli anime, così come a chi li ha scoperti quando internet non esisteva e bisognava “beccare” il proprio episodio preferito a caso, sperando nel palinsesto. Perché Candy Candy non è solo un cartone animato. È un patrimonio collettivo, un ponte tra culture, un grido sommesso che ci ricorda chi eravamo – e chi, in fondo, siamo ancora. Ogni volta che risuona quella sigla, ogni volta che rivediamo la rosa di Anthony o lo sguardo malinconico di Terence, torniamo un po’ bambini. Ma anche un po’ migliori. E allora sì, Candy, buon compleanno. Perché, nonostante il tempo, le battaglie legali, le controversie editoriali, e i mille volti dell’animazione che si sono succeduti, tu sei ancora lì. Con il cerchietto, le trecce, e quel cuore che non ha mai smesso di insegnarci come si affronta la vita. E anche se oggi spegni cinquanta candeline… per noi, nel nostro cuore nerd e nostalgico, tu avrai sempre dodici anni.
Aggiungi commento