Nell’immaginario collettivo, poche figure cinematografiche hanno saputo scolpire la loro presenza in modo tanto indelebile quanto Beetlejuice, lo spiritello porcello che, nel 1988, scatenò il caos in una delle commedie dark più iconiche di tutti i tempi. Ora, dopo più di tre decenni, il bizzarro e inquietante mondo creato da Tim Burton ritorna sul grande schermo con “Beetlejuice Beetlejuice”, una pellicola che promette di riaccendere quella scintilla di macabra magia che aveva conquistato il pubblico allora e che si prepara a farlo nuovamente oggi. Il sequel, lungamente atteso e per molti anni solo un sogno nel cassetto dei fan, riprende il filo di una storia rimasta sospesa nel tempo, ricucendo i legami con il passato e arricchendoli con nuovi intrecci narrativi. A guidare questo ritorno, come una lanterna nel buio, c’è ancora una volta Tim Burton, il visionario regista capace di trasfigurare l’ordinario in straordinario, infondendo ogni fotogramma di quel tocco inconfondibile che rende il suo cinema una forma d’arte a sé stante.
Il Fascino del Ritorno
Il primo elemento che cattura l’attenzione è il ritorno di alcuni dei volti più amati del film originale. Michael Keaton, con la sua performance esplosiva e inimitabile, torna a vestire i panni dello spiritello Beetlejuice, un personaggio che sembra essergli cucito addosso e che ancora oggi riesce a divertire e spaventare allo stesso tempo. Al suo fianco, Winona Ryder riprende il ruolo di Lydia Deetz, la giovane gotica che, ormai cresciuta, porta ancora con sé il peso di quel mondo spettrale che aveva intravisto da adolescente. Ma il film non si limita a rivangare il passato: accanto ai veterani, si affiancano nuovi talenti, come Jenna Ortega, già apprezzata per le sue doti nel genere dark, che interpreta Astrid, la figlia ribelle di Lydia. Un nome di rilievo è anche quello di Monica Bellucci, il cui fascino senza tempo aggiunge un tocco di eleganza e mistero alla pellicola, interpretando Delores, la temibile ex moglie di Beetlejuice, capace di tener testa al demone stesso. E poi Willem Dafoe, Justin Theroux e Burn Gorman, attori di calibro internazionale che arricchiscono ulteriormente un cast già straordinario.
Tra Continuity e Innovazione
La storia di “Beetlejuice Beetlejuice” si snoda tra passato e presente, recuperando i fili lasciati in sospeso dalla pellicola originale e intrecciandoli con nuove vicende che coinvolgono la famiglia Deetz. Dopo una tragica perdita, Lydia, ora adulta, si ritrova nuovamente a Winter River, la cittadina che era stata teatro delle stranezze soprannaturali di tanti anni prima. Ma questa volta non è sola: al suo fianco c’è sua figlia Astrid, una ragazza che, pur non essendo inizialmente consapevole dell’eredità che la lega a quel luogo, finisce per scoprire il modellino della città nascosto in soffitta, aprendo così un portale verso l’Aldilà. È proprio in questo frangente che il passato ritorna prepotentemente: Beetlejuice, richiamato nuovamente in vita dalla pronuncia del suo nome, riemerge dal limbo in cui era stato confinato, pronto a seminare ancora una volta il caos. Ma il mondo che trova al suo ritorno è cambiato, e con esso anche i personaggi che lo abitano. Lydia, Astrid e Delia, madre di Lydia e artista mai del tutto soddisfatta, devono affrontare le conseguenze delle azioni di un tempo, in un intreccio che, seppur avvincente, a tratti si complica fino a rischiare di perdersi nella sua stessa ambizione.
Una Regia Matura
Non si può parlare di “Beetlejuice Beetlejuice” senza riflettere sull’evoluzione stilistica di Tim Burton, un autore che, pur rimanendo fedele alla sua estetica gotica e bizzarra, ha maturato una visione più profonda e riflessiva nel corso degli anni. Questa maturità si riflette nelle scelte narrative e visive del film, che se da un lato omaggia l’originale, dall’altro esplora nuovi territori. Burton, infatti, non si limita a riproporre lo schema già collaudato, ma lo espande, cercando di dare maggiore spessore ai suoi personaggi e al mondo in cui si muovono.
La regia si dimostra attenta ai dettagli, con una cura particolare per le scenografie e i costumi, che restituiscono allo spettatore l’atmosfera inconfondibile di quel microcosmo tra il reale e l’immaginario. Il contributo del compositore Danny Elfman, collaboratore storico di Burton, è fondamentale nel mantenere quel ritmo incalzante e quella tensione emotiva che hanno reso celebre la loro collaborazione, a partire proprio dal primo “Beetlejuice”.
“Beetlejuice Beetlejuice” è un film che, nonostante qualche imperfezione nella gestione delle molteplici linee narrative, riesce a centrare l’obiettivo principale: intrattenere, emozionare e riportare il pubblico in quel mondo stravagante che ha tanto amato. Il sequel si muove abilmente tra evoluzione e omaggio, rispettando la legacy del film originale ma senza rinunciare a un tocco di novità. Seppur non esente da difetti, come una trama a tratti troppo intricata e qualche momento di disequilibrio, il film brilla per la sua capacità di evocare l’iconografia potente e distintiva di Burton, offrendo al pubblico sequenze che restano impresse nella memoria, come il finale travolgente e visivamente spettacolare, o l’apparizione di Monica Bellucci, destinata a diventare virale sui social. “Beetlejuice Beetlejuice” si conferma dunque un’opera che, pur con le sue ombre, riesce a far risplendere la luce di un cinema che sa ancora osare, emozionare e, soprattutto, divertire. Un tributo che i fan di lunga data sapranno apprezzare e che potrebbe conquistare anche nuove generazioni, riportando in vita lo spirito inimitabile del caos firmato Tim Burton.
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