Afghanistan è l’opera che chiude la carriera e la vita (sconcertante il presagio dell’ultima tavola) di uno dei più grandi fumettisti italiani. Edizioni NPE ha deciso di pubblicarla così come l’autore fu costretto ad interromperla: non sempre rifinita, nemmeno a matita, e parzialmente ripassata a china. Queste matite ci mostrano “in presa diretta” come lavorasse Micheluzzi. L’opera sembra chiudere un cerchio, essendo ambientata in uno dei Paesi che aveva già fatto da sfondo ad altri suoi precedenti volumi.
Una storia di guerra e di vendetta, dura, amarissima, e senza eroi.
Questo volume assume una involontaria valenza di ciò che potremmo chiamare un testamento spirituale, agli effetti di un aspetto che l’autore desiderava senza dubbio chiarire. Il fatto è che, in certi studi critici su di lui, gli era stato conferito un “colore” politico conservatore se non addirittura destrorso. Giudizio, beninteso, degno di attenzione ma tale da esigere opportuni distinguo, per evitare il rischio di malintesi. Perché la verità era senza dubbio meno assoluta, con sfaccettature capaci di attribuirle un senso meno nettamente connotato. Ebbene, con questa storia, Micheluzzi vuole indirettamente confutare tale interpretazione, illuminare questo aspetto della propria mentalità, confessandosi davanti al lettore o per lo meno chiarendo il proprio pensiero. Il quale può indurre bensì un lettore superficiale verso ciò che Micheluzzi giudicava un rilievo scorretto, ma in realtà il predetto orientamento conservatore va inteso in tutt’altra maniera […] Da essa emergono magari idee conservatrici, ma non esattamente nel senso politico, quanto piuttosto nella conservazione dei principi fondamentali di un determinato “essere uomini”: la pietà, soprattutto la necessità, di comprendere le ragioni dell’«altro». E specialmente il serpeggiante e onnipresente orrore per la guerra […] Non è la guerra a interessare Micheluzzi, bensì il groviglio di relazioni e sentimenti che essa mette in moto.
(dalla prefazione di Gianni Brunoro)
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