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Le donne nell’Antica Roma

Nell’immaginario collettivo, l’Antica Roma appare come un’epoca dominata da figure maschili, in cui le donne sarebbero state relegate a ruoli di mera custodia domestica. Le testimonianze letterarie spesso dipingono un quadro univoco, suggerendo che le donne romane si limitassero a filare la lana e a curare la casa. Ma, come accade in molte narrazioni storiche, la realtà era ben più complessa e sfumata.

Le donne romane vivonono in un contesto che, pur essendo intriso di patriarcato, offreva anche spazi di azione e autonomia. È vero che erano soggette alla “patria potestas” fino a quando vivevano nella famiglia di origine, e che, una volta sposate, passavano sotto la “manus maritalis” del marito. Tuttavia, già durante la Repubblica, esisteva la possibilità di contrarre matrimonio “sine manu”, ovvero senza il trasferimento della tutela dal padre al consorte. In questo caso, la donna manteneva un legame nominale con il padre, il che riduce l’efficacia della tutela paterna. Una volta sposata in questo modo, la sposa restava proprietaria dei suoi beni, proteggendo così la sua autonomia patrimoniale.

In una società in cui la separazione dei beni era la norma per le unioni “sine manu”, le donne possedevano il diritto di mantenere e gestire le proprie proprietà, dai terreni ai gioielli. Questo sistema consente loro di esercitare una certa forma di indipendenza economica, poiché in caso di divorzio, la dote doveva essere restituita. Ma non si fermava qui: la morte del padre liberava la donna da ogni tutela familiare, permettendole di scegliere un tutore di sua fiducia, spesso un lontano parente, con cui mantenere una relazione di scarsa dipendenza. In questo contesto, alcune donne arrivano a cambiare tutor così frequentemente da farne oggetto di schermo.

Un cambiamento significativo nelle dinamiche di genere si ebbe con Augusto. Nel 9 dC, l’imperatore promulgò il “ius trium liberorum”, una legge concepita per promuovere la natalità e il matrimonio, che liberava dalla tutela le donne che avevano dato alla luce almeno tre figli. L’abolizione della “tutela mulierum” avvenne definitivamente con Claudio, il quale si rese conto dell’inutilità di una regola che limitava l’autonomia femminile.

Tuttavia, nonostante la possibilità di divorzio e una certa autonomia patrimoniale, le donne romane erano ancora escluse da diritti fondamentali come il voto e l’accesso alle cariche pubbliche, considerandole affette da “levitas animi”, un termine che rifletteva la percezione di inferiorità intellettuale attribuita loro. Ma questa visione era lontana dalla verità, come dimostrato dalle testimonianze di imprenditrici che operavano in settori chiave dell’economia romana.

Uno dei più sorprendenti ambizioni in cui le donne dimostrarono capacità imprenditoriali era quello delle “figlinae”, le fabbriche di mattoni. Questo settore, essenziale per la costruzione di grandi opere pubbliche, era caratterizzato da una produzione articolata e organizzata, con un volume tale da richiedere un alto numero di operai. Sorprendentemente, molte di queste fabbriche erano gestite da donne appartenenti a classi elevate. Domizia Lucilla, madre di Marco Aurelio, è solo un esempio di una donna che amministrava una figlia e impiegava numerose lavoratrici.

In aggiunta, le donne si distinsero nel commercio di vino e olio, spesso avviando queste attività da sole, approfittando delle loro conoscenze e competenze. Ma l’arte della tessitura rimaneva senza pari: ogni donna, fin da piccola, veniva istruita in questa attività, diventando così abile nell’aprire o gestire un’attività legata alla lavorazione della lana. Non sorprende quindi che, nei laboratori di fullonica, le donne rappresentassero la maggioranza dei lavoratori, assumendo compiti fondamentali come la tintura dei tessuti e la cura delle vesti dei cittadini romani.

Un epitaffio ci offre un’immagine affascinante di Mecia Dynata, una donna che possedeva tre negozi di stoffe. La sua decisione di nominare il padre come erede e di non menzionare il marito suggerisce una situazione di autonomia e libertà, che permette di dedurre come alcune donne potrebbero agire “sui iuris”, in piena indipendenza legale.

La “levitas animi”, quindi, non era altro che un pretesto per escludere le donne da ambiti considerati “virili”, come la politica. Le testimonianze storiche dimostrano che molte donne romane seppero ritagliarsi spazi significativi all’interno di un sistema economico in gran parte maschilista. La caduta dell’Impero Romano, purtroppo, segnò un regresso nei diritti e nelle libertà delle donne, il cui status sociale e legale tornò ad essere limitato, una condizione che avrebbe richiesto secoli per essere nuovamente rivendicata.

Questa storia di resilienza e innovazione femminile nell’Antica Roma ci invita a riflettere sulla complessità dei ruoli di genere e sulle dinamiche sociali di un’epoca che, sebbene segnata da grandi disuguaglianze, vide anche l’emergere di figure femminili straordinarie, pronte a sfidare le convenzioni ea conquistare la propria indipendenza.

Redazione

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