Da giovedì 4 dicembre, potrete trovare in edicola il terzo volume della collana “Donne sul fronte” dedicato a “Giuliana Sgrena”. Il graphic novel curato da Giuliana Sgrena e Irene Carbone, ripercorre in 128 pagine, in maniera autobiografica, i giorni del rapimento in Iraq nel 2005.
“Donne sul fronte, storie di giornaliste, conflitti e frontiere”. E’ la prima collana di graphic journalism tutta al femminile. In edicola dal 19 novembre, per sette settimane, grazie alla collaborazione tra Round Robin editrice, Il Fatto quotidiano e PaperFirst.
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Alle 18 diretta con Luigi Politano insieme alla protagonista e autrice Giuliana Sgrena, all’illustratrice Irene Carbone e a Gabriele Polo.
[di Giuliana Sgrena] Hanaa Edwar è ottimista, finalmente vede un futuro per l’Iraq, gli artefici sono i giovani – in gran parte donne – che dal primo ottobre 2019 hanno dato vita a quel movimento che ha assunto i connotati di una rivoluzione, la Rivoluzione d’ottobre. Hanaa comincia a vedere i
frutti di un lavoro che l’ha vista militare per cinquant’anni a favore dei diritti delle donne, della pace e della democrazia. L’opposizione alla dittatura di Saddam l’aveva costretta all’esilio: prima a Berlino, poi in Libano e in Siria. Co-fondatrice e presidente dell’Associazione Amal (Speranza), una Ong fondata del 1992, è anche tra le promotrici dell’Iraqi Women Network, che comprende più di novanta organizzazioni di donne. Numerosi i riconoscimenti ottenuti anche a livello internazionale, per la sua lotta contro l’Isis è stata invitata dal Comitato antiterrorismo dell’Onu come relatrice al briefing sul “Ruolo delle donne nella lotta al terrorismo e all’estremismo violento” e nel 2013 è stata insignita del premio di donna araba dell’anno. L’ultima volta che l’avevo incontrata era stato a Baghdad durante la campagna elettorale del 2005, Hanaa Edwar era l’unica donna capolista, candidata nella lista Watani promossa da Amal.
Il 25 ottobre (2019) a piazza Tahrir a Baghdad c’era un milione di manifestanti. È stato uno shock per i politici vedere che questi giovani non arretravano di fronte ai gas lacrimogeni, ai proiettili, prendevano i lacrimogeni e li buttavano nel fiume (piazza Tahrir è vicino al Tigri)».
Chi sono i protagonisti di questa protesta?
«I manifestanti, secondo una ricerca, sono giovani tra i 18 e i 36-40 anni, con livello di istruzione medio; molti sono universitari. La cosa incredibile è che la mobilitazione non è solo a Baghdad, ma anche nelle province del sud dove vigono ancora tradizioni tribali, religiose, molto conservatrici. Questo mi fa essere ottimista».
E lo sarà ovviamente anche per la grande partecipazione delle donne.
«Le donne hanno avuto grande visibilità e, contro chi non accettava la loro presenza nelle manifestazioni (come il leader sciita radicale Muqtada al Sadr), il 13 febbraio migliaia e migliaia di donne sono scese in piazza in diverse città dell’Iraq, comprese le città sante per gli sciiti, Najaf e Kerbala. Impressionante, per la prima volta nella storia dell’Iraq tante giovani nelle piazze hanno urlato slogan per il cambiamento, la partecipazione politica e la condanna della violenza contro le donne. Importante da sottolineare anche il fatto che nelle manifestazioni non c’è stata nessuna molestia, nessun abuso nei confronti delle donne, contrariamente a quanto accaduto in Egitto, durante l’occupazione di piazza Tahrir. Mi sono unita a loro e ho discusso con loro. Pensano che si debbano affrontare contemporaneamente
tutti i problemi della nostra società: corruzione, disoccupazione, sovranità, dignità ma anche le molestie sessuali, la violenza contro le donne, compresa quella domestica. Affrontano problemi politici, economici, sociali del paese non solo con rivendicazioni ma anche con proposte, mettendosi in gioco. Questi giovani sono pronti a entrare in politica e potrebbero essere l’elemento di “pulizia” della politica per eliminare tutti i politici corrotti e costruire un Iraq libero con una nuova visione politica, economica e sociale. È questa profonda presa di coscienza che fa del movimento una rivoluzione e non si fermerà».
Per mantenere la protesta occorre ottenere dei risultati.
«Sono riusciti a far dimettere l’ex premier Adel Abdul Mehdi, e a respingere le candidature a capo del governo di due politici designati (Muhammed llawi e Adnan al Zurufi), mentre Mustafa al Khadimi, in carica da maggio, ha accolto nel suo programma di governo alcune richieste del movimento, in particolare quella di assicurare alla giustizia i responsabili degli assassinii, ma per ora non si sono visti i risultati delle indagini del comitato incaricato e permane l’impunità. Al Khadimi, dal 2016 responsabile dell’Iraqi national service (intelligence), ha fatto parte del sistema fin dal 2003 ma ha una formazione laica e non è legato ai partiti islamisti. Per ora resta sotto osservazione del movimento anche se i cambiamenti richiesti richiedono uno stato e una giustizia più forte. Il principale ostacolo resta la corruzione che, per me, è l’altra faccia del terrorismo. Nel 2003 (invasione dell’Iraq e caduta di Saddam) era stato costituito un comitato contro la corruzione, ma dentro lo stesso organismo ci sono corrotti e perseguono solo i pesci piccoli. In diciassette anni il sistema politico non ha fatto che produrre crisi senza mai trovare una soluzione e questo lo ha indebolito».
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