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My son, my son, what have ye done

Un capolavoro inaspettato ha fatto irruzione durante l’ultima edizione della Mostra del Cinema di Venezia. Un regalo del regista Werner Herzog, che ha sorpreso tutti, sradicando le rigide regole di un festival spesso troppo prevedibile. Con My son, my son, what have ye done, Herzog ha presentato al concorso due film diretti da lui stesso, diventando immediatamente il faro di un festival che fino a quel momento aveva offerto poche sorprese. Il film è un canto dolce e cruento, glaciale e violento, un film horror senza sangue, come afferma lo stesso regista.

La struttura a flashback permette alla narrazione di respirare, sottolineando l’origine cronachistica della storia, basata su un evento realmente accaduto con protagonista il giovane Mark Yavorsky. La trama può essere riassunta in una sola frase: un aspirante attore di nome Brad uccide sua madre e si barricato in casa. Fuori, la polizia, un regista e la fidanzata ricostruiscono in un mosaico di ricordi le tormentate fasi della discesa nella follia del giovane. Il tutto si svolge in una periferia di San Diego, fatta di case a schiera e pomeriggi con tè e vicini di quartiere, una monotonia frustrante. I fili narrativi e visivi di Woyzeck, i volti e le tensioni dei corpi di Shannon e Kinsky si fondono in un connubio temporale che ci riporta indietro di trent’anni. Un omicidio e la sua genesi sono ciò che accomuna questi due gioielli. Herzog connette il tranquillo sobborgo di San Diego con le inospitali e verdissime foreste peruviane che circondano il fiume Urubamba, luogo da cui scaturisce il bizzarro e affascinante misticismo egomaniaco del protagonista. Le melodie dei Popul Vuh riverberano come anaconda, le urla deliranti di Aguirre e i versi delle scimmie su zattere di legno alla deriva si fanno udire tra le acque del fiume in piena.

La tragedia greca fa irruzione sul palco e nella claustrofobia di una casa rosa a un piano, con soffitto basso: il matricidio di Sofocle diventa sottocutaneo, Oreste ha abbattuto la quarta parete per rifugiarsi in questa casetta a San Diego. Tutto è suggerito, solo accennato, dipinto per pungere la pelle dello spettatore. Michael Shannon riesce a toccare tutte le corde della sua interpretazione: emoziona, spaventa, affascina. Come aveva già fatto in Bug – La paranoia è contagiosa e nel ruolo di John Givings in Revolutionary Road, l’attore di trentacinque anni presta il suo volto e la sua postura a un personaggio paranoico, ossessionato dai fenicotteri rosa e da una spada vendicativa, simbolo e strumento di liberazione dell’anima. L’anima di Brad-Shannon è concentrata nel suo sguardo fisso, una metafora kubrickiana di Jack Torrance e Palla-di-lardo. Uno sguardo che offre un nuovo punto di vista sul mondo, un angolo inquietante e surreale.

La Chloë Sevigny con il suo maglioncino beige, Willem Defoe nel ruolo del poliziotto e Brad Dourif, che si unisce alla factory di Herzog, interpretando personaggi di scarsa importanza ma dotati di grande impatto (come nel ruolo dell’allibratore nel film Cattivo Tenente), sono perfetti, da scena d’autore. Udo Kier, nel ruolo del regista teatrale, forse convince meno, ma potremmo sbagliarci. I personaggi sono tipici di Herzog: non sopportano lo status quo, sono delusi e senza scopi in un mondo che respinge gli emarginati non allineati, individui che si rifugiano in una ribellione infantile, primitiva, senza sbocchi. Destini alla deriva che cercano di scalare montagne con una nave o di sfuggire a madri paranoiche attraverso l’omicidio con una spada che evoca antichi deliri.

Satyr GPT

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