Nel giovane antropologo emerge, con freschezza e ironia d’assoluto spessore, il resoconto del suo primo lavoro di ricerca sul campo condotto sulla popolazione dei Dowayo, del Camerun del nord.Dei due anni vissuti tra gli autoctoni il giovane Barley non tralascia nulla, a partire dagli aspetti scientifici della ricerca fino a quelli più prosaici, oggetto del vivere quotidiano di un giovane uomo in una terra e in una cultura “altre”. Questo per quanto attiene una risposta – o una ragione – di natura disciplinare al quesito iniziale: perché leggerlo. A ciò si aggiungono tutta una serie di elementi, distanti dal contesto scientifico-accademico, che donano al libro tratti di leggerezza e di piacere spesso estranei a testi di tale genere.
L’ironia, innanzitutto – a questo riguardo va sottolineato l’attento e vivace lavoro di traduzione con cui Paolo Brama e Francesca Sabani sono riusciti a restituirne lo spirito autoironico e ridanciano – che pervade l’intera opera. In aggiunta, una serie di circostanze e aneddoti che, in una sorta di magica comicità degli eventi, fanno di questo diario etnologico una vera e propria “ghiottoneria letteraria” – per usare un termine caro a Renato Rascel – spassosa e finemente umoristica, tanto che arrivati al termine si ha voglia di ricominciare daccapo. La vita nelle capanne di fango, il lavoro di battitura del miglio, i rituali di circoncisione; a tali aspetti fondanti della vita dowayo, Barley affianca le sue personali disavventure – ora drammatiche, ora divertenti – e i tanti piccoli, comici contrattempi che vanno a comporre un corpus rigorosamente dettagliato, quanto ironico e godibile, in una sorta di essenza ibrida in cui il saggio accademico ed il romanzo si intrecciano con la musicalità di una partitura.Se ne consiglia la lettura agli addetti ai lavori e a chi, più semplicemente, desidera avvicinarsi ad una lettura antropologica ritmata dall’ironia e dal buon umore.
Aggiungi commento