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Roma Caput Vini: il mito del Vino per gli antichi romani

L’iscrizione, bene in vista sul muro della taverna pompeiana di Edone, parlava chiaro:

“Qui si beve per un asse. Se ne paghi 2, berrai un vino migliore. Con 4, avrai vino Falerno”.

Un vero prezzario della mescita che conteneva un’offerta da non perdere, se si pensa che il Falerno era considerato il “grand cru” (il vigneto più pregiato) del mondo latino.

La scritta, testimonia il forte rapporto dei Romani antichi con la bevanda regina del desco, consumata non solo nelle domus private, ma anche nelle osterie frequentate dalle classi più umili (le papinae) e nei locali che offrivano cibi caldi (thermopolia).

Ci dice anche che il vino era, prima ancora che un alimento, una questione di socialità, e che la produzione vinicola aveva raggiunto, sia per varietà che per quantità, uno sviluppo tale da permettere all’avventore di scegliere in base alle tasche e al palato.

Plinio il Vecchio scrive, nella sua Naturalis Historia, che almeno due terzi della produzione vinicola totale proveniva dall’Impero, ed elenca 91 vitigni diversi con 196 specie di vini. Tra questi, 50 li definisce “generosi”, 38 “oltremarini”, 19 “dolci”, 64 “contraffatti”, e 12 addirittura “prodigiosi”. Catone afferma di conoscere otto qualità di vino, Varrone dieci, Virgilio quindici e Columella ben cinquantotto!

A Roma, nel periodo tra Repubblica e Principato (I secolo a.C.), vennero consumati in un solo anno quasi due milioni di ettolitri di vino: erano lontani i tempi della morigeratezza di costumi dell’ Urbe monarchica, che teneva in uggia i costumi ritenuti viziosi (vino compreso) importati da società liberali come quella greca. Era stato un periodo, quello, di rigido patriarcato, e se i maschi avevano goduto con parsimonia del nettare di Bacco (ma solo dopo i trent’anni), alle donne era addirittura vietato, pena la morte.

Per evitare violazioni alla legge era stato istituito lo ius osculi, che dava la facoltà ai congiunti maschi di baciare le donne della famiglia per accertarsi che non avessero bevuto vino, bevanda che induceva liberalità e lussuria. Questa facoltà scomparve negli ultimi anni della repubblica, e ne giovarono soprattutto le matrone e tutte le donne di ceto medio, che finalmente iniziarono a godere di una coppa ogni tanto.

La differenza la faceva il ceto di appartenenza e, come ci ricorda l’iscrizione pompeiana, la disponibilità economica. Si passava da un vinello come la “lora” (surrogato dal basso contenuto alcolico e destinato al consumi di schiavi, contadini e operai, ottenuto aggiungendo acqua alle vinacce già pressate o ai grappoli poco maturi o alterati) ai grandi vini adatti all’invecchiamento (dai 5 ai 25 anni ed oltre): nettari di pregio, che potevano costare anche ottanta volte il prezzo del vino comune. Dopo la pigiatura, la pressatura e una filtrazione molto grossolana, il mosto veniva messo a fermentare in reipienti di terracotta di forma sferica, i dolia, dentro i quali, il vino veniva anche invecchiato e trasportato.

In alcuni casi si preferiva travasarlo in anfore a doppia ansa, le seriae, dotate di una punta che si conficcava nel terreno. Prima del III secolo d.C. le anfore di terracotta erano i contenitori principali per il traffico marittimo, con una capacità di una ventina di litri, chiuse ermeticamente con tappi di sughero e sigillate con pece, che consentiva l’invecchiamento; su di esse veniva impressa un’etichetta, il pittacium, che recava il luogo di provenienza del vino., il nome del produttore e quello del console in carica.

Con il tempo le anfore furono sostituite dalle botti, di origine celtica.

Nei dolia, il vino nuovo rimaneva fino al 23 aprile: soltanto dopo le Vinalia Urbana (festività in onore del raccolto dell’uva) si poteva assaggiare. Era il momento in cui entravano in scena gli haustores, appartenenti alla corporazione dei pregustatores, assaggiatori patentati, che classificavano con appropriata terminologia i vini, distinguendoli per colore, corpo e struttura.Usando il poculum, una piccola coppa ombelicata che prelevava una modesta quantità di vino, ne misuravano qualità, gradazione e acidità,e stabilivano i vari tagli e trattamenti di affinamento e invecchiamento cui sarebbe stato destinato. Allora come oggi, quelli più pregiati erano adatti all’invecchiamento: un vino come il Falerno non si beveva prima dei 10 anni, quello di Sorrento non prima dei 25.

di Annarita Sanna

Redazione

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