Raramente accade che un film introdotto in Italia abbia un degno titolo, o sottotitolo; basti pensare a “ Se mi lasci ti cancello” che faceva quasi presumere che quello di Gondry fosse una commediola e non un film di rara poesia come pochi. Qui il sottotitolo calza a pennello, “ L’impero della mente “, perché è di mente che si parla, fruscii della mente, un flusso di coscienza lungo tre ore. Lynch seguendo il filone di “Muholand drive” costruisce una dimensione parallela dove i suoi personaggi interagiscono ( Si pensi alla chiave di Muholand drive per accedere alla seconda parte del film; qui usa le porte).
Questa volta non si degna di darci una semi-trama da seguire, per occhi ancora inesperti alle visioni Lynchiane, la trama è labile, e presto si sgretola. Un’attrice viene presa come protagonista in un film molto importante, sul cui si raccontano molte leggende, strane storie, – Hollywood ne è piena ma non tutte sono vere, come dice il produttore del film, nonostante qualcosa di strano ci sia e si senta già dalla prima giornata di riprese, quando una strana ombra compare fra i set.
Tuttavia, come lo stesso Lyinch ha detto, la trama non è importante, ma è solo il tramite con cui Lynch riesce a bloccare lo spettatore alla poltrona. Il film è un flusso di coscienza che parte da Inland ( quartiere di Los Angeles) e arriva fino in Polonia, dove la realtà si scontra con la leggenda, dove strani stregoni riescono a ipnotizzare giovani prostitute con il solo movimento di un dito, e strani riti echeggiano i fasti di un passato.
Fra sogno e realtà, la protagonista( e allo stesso modo noi che lo guardiamo ) rivive attraverso sensazioni, immagini e luoghi, l’angoscia che pervade per tutto il film. Un senso di inquietudine accompagna chi lo guarda, con quell’alchimia che solo Lynch riesce a fare, costruita attraverso anni di sperimentazione. Stravolgendo i canoni del cinema, non è che con questo si voglia insinuare che sia stato il solo ad aver fatto questo; ogni autore di cinema che si rispetti ha cercato una propria strada nel farlo, e a Lynch va sicuramente annoverata l’originalità. Nel riuscire sapientemente a miscelare i toni dal drammatico al grottesco facendo vivere ai suoi personaggi mille vite e nessuna, in quei suoi giochi di rimandi che sono percepibili solo attraverso poche immagini, battute dette li, dal significato quasi nullo ma che rimbombano in quel vasto mondo della metafora.
La musica miscelata al momento giusto riesce ad incamerare sensazioni prima di ansia poi di euforia, e infine di terrore; in un exploit nella parte finale dove tutti i personaggi stanno lì a ballare e divertirsi in questa messa in scena finale, lo spettacolo nello spettacolo. Alla fine del film chi guarda rimane perplesso, immobile rimane a guardare l’ultima parte dove ormai i titoli scorrono veloci quanto le immagini scarne del digitale. Li, sulla poltrona, si chiede se si è perso qualcosa, quella chiave di lettura che gli avrebbe permesso di capire, di mettere insieme quel puzzle. Ma cosi (forse) deve essere, Inland empire è un viaggio che si fa con la mente, puramente sensoriale, disturbante, sconvolgente, la storia di un mistero, di tante facce di tanti mondi, che si (s)velano attorno ad una donna.
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