Nel 1946, un mondo ancora stremato dal secondo conflitto mondiale, Jean Cocteau portava sul grande schermo una delle fiabe più amate e trasposte nella storia del cinema: La Bella e la Bestia (La Belle et la Bête). L’opera, presentata alla prima edizione del Festival di Cannes, non solo si distinse come un’intramontabile riflessione sull’amore e l’identità, ma gettò le basi per il cinema fantastico francese, affermandosi come una delle pietre miliari della settima arte. Basato sull’omonima fiaba europea, il film di Cocteau trasforma la semplice narrazione in una densa allegoria visiva e filosofica, esplorando i concetti di bellezza, bestialità e redenzione. L’atmosfera gotica e surreale del castello della Bestia, ricco di suppellettili animati e architetture espressioniste, conferisce al film un’aura onirica e spettrale che lo distingue nettamente dalle versioni più recenti e commerciali della stessa storia, come quella celeberrima della Disney del 1991.
Il castello, con i suoi corridoi infiniti e le sue stanze cariche di mistero, diventa quasi un personaggio a sé stante, un luogo dove la magia e l’oscurità si fondono in un gioco di luci e ombre che riflette perfettamente i tormenti interiori della Bestia e il progressivo affetto di Belle. È un mondo dove ogni dettaglio – dalle candele che si accendono al passaggio, fino agli specchi che rivelano i pensieri più intimi – sussurra l’inquietudine e la malinconia che avvolgono il destino dei protagonisti.
La trama si sviluppa in un delicato equilibrio tra il dramma e il fiabesco. In una Francia settecentesca, una famiglia caduta in disgrazia lotta contro la povertà e le ambizioni frustrate. Il padre, interpretato con intensità da Marcel André, è un uomo distrutto dalle difficoltà economiche, circondato da figlie egoiste e ingrate, tranne Belle (Josette Day), l’unica veramente preoccupata per il benessere della famiglia. Il suo sacrificio volontario per salvare la vita del padre, scegliendo di andare incontro al temibile Mostro, segna l’inizio di una serie di eventi che metteranno alla prova la sua forza d’animo e la sua capacità di vedere oltre le apparenze.
Jean Marais, che incarna sia la Bestia che il Principe (e anche il vanitoso Avenant, nella versione originale), offre una performance straordinaria, resa ancor più complessa dalle cinque ore di trucco quotidiane necessarie per trasformarlo nell’orribile creatura. La Bestia di Marais è un essere tormentato, diviso tra l’umanità che desidera riconquistare e la bestialità che è costretto a manifestare. Ogni suo sguardo, ogni movimento è carico di sofferenza e desiderio, un’interpretazione che ha affascinato il pubblico e fatto esclamare a Greta Garbo, davanti alla scena finale della trasformazione, “Ridatemi la Bestia!”, come testimonianza dell’impatto emotivo del personaggio.
Cocteau, con l’aiuto non accreditato di René Clément durante le riprese a causa di una grave forma di psoriasi che lo costrinse a lasciare temporaneamente il set, gioca con gli effetti speciali in modo ingegnoso e poetico. Scene come quella in cui le candele si accendono da sole o quella del volo finale dei protagonisti sono ottenute con semplici trucchi ottici, come girare la pellicola al contrario. Questi espedienti tecnici, lungi dall’apparire ingenui, contribuiscono a creare un senso di meraviglia e sospensione, accentuando la natura illusoria del cinema di cui Cocteau era maestro.
Il regista non si limita a raccontare una storia d’amore, ma esplora il tema della metamorfosi come viaggio verso la comprensione di sé e dell’altro. La Bestia, nella sua brama di umanità, incarna la lotta tra due nature inconciliabili, quella animalesca e quella razionale. Belle, con la sua purezza e il suo coraggio, non solo vede oltre l’apparenza mostruosa, ma diventa veicolo di redenzione, dimostrando che la vera bellezza risiede nella capacità di amare.
La versione italiana del film, come spesso accade con le fiabe, ha subito alcune modifiche nei nomi dei personaggi a seconda delle edizioni. Nella prima versione del 1947, Avenant, che letteralmente significa “avvenente”, è diventato “Splendore”, mentre nel ridoppiaggio ha assunto il nome più ordinario di Armando. Queste differenze sottolineano come ogni adattamento sia il risultato di una rilettura culturale che può alterare, seppur lievemente, la percezione dell’opera originale.
La Belle et la Bête è un film che va ben oltre il semplice racconto fiabesco: è una riflessione sul potere dell’immaginazione e sulla fragilità dell’essere umano. Cocteau invita il pubblico a guardare oltre il velo delle apparenze, a lasciarsi trasportare in un mondo dove la poesia visiva e il sentimento si fondono in un’unica, affascinante visione. Una visione che, a distanza di oltre settant’anni, continua a incantare e a far riflettere sulla vera natura dell’amore e della bellezza.
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